Fischietto e GDPR: la tutela reciproca, rafforza la privacy

Fischietto e GDPR, (whistleblowing and Privacy), con la prossima entrata in vigore, a partire dal 15 luglio, del decreto legislativo n. 24/2023 (DLWB24) di recepimento della normativa UE che aggiorna le disposizioni sulle segnalazioni whisteblowing (WB), entrerà in vigore anche una nuova forma di tutela per la privacy.

Infatti, fra le materie che potranno essere oggetto di segnalazione in ambito whistleblowing rientrano anche espressamente le violazioni inerenti alla tutela della vita privata e protezione dei dati personali (art. 2 comma 1.a.3); peraltro, le norme WB in scadenza, pur nella loro sinteticità non escludono la possibilità di segnalazioni afferenti a violazioni della privacy.

Quello che muta sostanzialmente è che con la normativa europea recepita dal DLWB24, l’ambito di applicazione viene ampliato in maniera notevole (in generale: settore pubblico e privato, diritto nazionale e diritto UE) e le segnalazioni assumono una duplice natura: 1) di strumento di lotta agli illeciti e 2) di diritto alla segnalazione.

Il GDPR è ampiamente richiamato nelle norme sul WB, ai fini della tutela dei soggetti che effettueranno segnalazioni su presunti illeciti.

Quindi, sotto il profilo privacy, siamo di fronte ad una tutela reciproca e che rafforza la possibilità per chi opera in un contesto lavorativo pubblico o privato, ai sensi dell’art. 3 DLWB24, di contribuire al perseguimento di eventuali violazioni di disposizioni normative nazionali o dell’Unione europea tali da ledere, come recita l’art. 1, “l’interesse pubblico o l’integrita’ dell’amministrazione pubblica o dell’ente privato”.

Posta questa cornice, proviamo ad approfondire dal punto di vista privacy quali siano i percorsi per la tutela dei diritti degli interessati.
In generale il GDPR mette a disposizione di ciascun interessato strumenti per la tutela dei propri diritti. L’Autorità Garante, elettivamente, è il soggetto che può provvedere a una prima tutela, mediante gli strumenti:

– i) del reclamo, sulla base dell’art. 77 GDPR e dell’art. 140-bis del Codice privacy (CP), per questioni che attengono a lesioni individuali del diritto alla privacy,
-ii) della segnalazione di questioni attinenti alla privacy ai sensi dell’art. 144 CP, che il Garante potrà considerare per l’esercizio dei propri poteri ai sensi dell’art. 58 GDPR.

Adire il Garante con un reclamo è alternativo per l’interessato, al ricorso all’autorità giudiziaria (cfr anche art. 152 CP) e viceversa. Avverso i provvedimenti del Garante, l’interessato potrà comunque proporre ricorso all’autorità giudiziaria ai sensi dell’art. 10, comma 4, del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150.

Il CP regolamenta la trattazione di illeciti penali attinenti alla privacy, all’art. 144 bis il revenge porn e agli artt. 167 – 168 talune fattispecie che possono, a seconda delle loro connotazioni, configurare illecito penale, attinenti a: trattamento, comunicazione e diffusione illecita di dati personali, acquisizione fraudolenta di dati personali su larga scala, falsità nelle dichiarazioni al Garante e comunque impedimento ai suoi compiti ed esercizio dei poteri, l’inosservanza di provvedimenti del Garante e violazioni delle disposizioni in materia di controlli a distanza e indagini sulle opinioni dei lavoratori (art. 38 dello Statuto dei lavoratori – l. n. 300/1970).

Il CP prevede i casi di illeciti penali per i quali è prevista reciproca comunicazione fra Garante e Pubblico ministero.

Il DLWB24 ha fra l’altro aggiornato il CP, che all’art. 2-undecies prevede (a valere dal 15 luglio 2023) la tutela della riservatezza dell’identità della persona che effettua segnalazioni – oltre che ai sensi del DLWB24 – anche ai sensi delle analoghe norme sul whistleblowing previste dal Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (d. lgs. n. 385/1993 – artt. 52-bis e ter ) e dal Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (d. lgs. n. 58/1998 – artt. 4 undecies e duodecies).

Il processo delle segnalazioni di WB, che le organizzazioni pubbliche e private interessate sono tenute ad ammodernare con decorrenza dal prossimo 15 luglio, dovrà essere tale – come prima – da garantire la tutela del segnalante anche sotto il profilo della privacy, oltre a tutelarlo ovviamente da ritorsioni.

Ma quali segnalazioni afferenti alla privacy potrebbero essere veicolate tramite WB? Non le questioni lesive della privacy che attengono a un interesse prettamente personale seppur collegato al rapporto di lavoro ma, come evidenziato in premessa, quelle che attengono alla tutela dell’interesse pubblico o dell’integrita’ dell’amministrazione pubblica o dell’ente privato (art. 1 DL24).

Quindi, volendo ipotizzare alcune ipotesi per una tassonomia, si potrebbero indicare a titolo esemplificativo i seguenti casi in cui, con le protezioni previste dal WB, il soggetto legittimato (ovvero, è utile ricordarlo, chi a diverso titolo opera chi opera in un contesto lavorativo pubblico o privato) potrebbe segnalare violazioni WB:

-i) trattamenti di dati personali esperiti in spregio alle fattispecie penali previste dal CP;
-ii) trattamenti di dati personali particolari per asseriti motivi di pubblico interesse non rientranti nelle previsioni dell’art. 2-sexies del CP;
-iii) trattamenti di dati personali attinenti al rapporto di lavoro con modalità che non siano privacy compliant;
-iv) architettura organizzativa privacy carente (ad es.: mancata o irregolare nomina del RPD nel settore pubblico e, quando previsto, nel settore privato; mancata emanazione delle informative sui trattamenti svolti; sistemi informativi non protetti; mancata cancellazione dei dati personali nei termini previsti; divulgazione dei dati a terzi – magari in Paesi extra-UE, in assenza di idonei accordi; …);
-v) impostazione del WB (canali di comunicazione, gestione delle segnalazioni, tutela della riservatezza,…) tale da non garantire il segnalante.

Certo, alcune delle possibili fattispecie potrebbero interessare direttamente anche il singolo ma la valenza generale renderebbe la questione ammissibile a segnalazione WB.

Una volta fatta la segnalazione, questa andrà trattata secondo le indicazioni del WB e le Linee guida ANAC (che ai sensi del DLWB24 dovrà emanare ulteriori Linee guida per le segnalazioni esterne).

Va da sé che il vaglio delle segnalazioni potrebbe poi avere esito non risolvibile all’interno dell’organizzazione e, quindi, la questione andrebbe rimessa alle Autorità competenti, a seconda della loro natura.

In generale verrebbe coinvolto anche il Garante privacy quando la competenza venisse ritenuta (anche o solo) di sua pertinenza oppure quando, per il tramite dell’A.G., ove la questione venisse segnalata alla stessa e riguardasse le fattispecie penali sopra menzionate.

Dominio, Riassegnazione Nomi

Dominio e la riassegnazione dei nomi, una Procedura che nasce per contrastare il fenomeno del Cybersquatting (accaparramento di nomi a dominio). 
Chi ritiene di aver diritto all’uso di un nome a dominio registrato da altri in malafede, può attivare una procedura per la riassegnazione del dominio in modo semplice, efficace ed economico.

Camera Arbitrale di Milano fornisce un servizio di riassegnazione dei nomi a dominio per l’estensione geografica .IT in quanto accreditata dal Registro del Country Code Top Level Domain .it (Registro del ccTLD “it”).
Per le contestazioni riguardanti nomi a dominio aventi altre estensioni (per esempio .com) consulta il database dell’Organizzazione Mondiale Proprietà Intellettuale (OMPI-WIPO).

Scopri chi può attivare la procedura e per quali tipi di controversie.

La MBLI S.a.s. ha trovato per voi questo splendito articolo scritto da Luca Giacopuzzi (avv. del Foro di Verona), che spiega abbastanza semplicemente il fenome dell’accaparramento dei domini.


Articolo Integrale
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Una parte, coinvolta in un conflitto che ha per oggetto un nome a dominio, ha diverse soluzioni per comporre la lite. La prima, quella più “familiare” ad un giurista, è l’instaurazione di un procedimento giudiziale ordinario. Ma questa, forse, non è l’opzione migliore tra le diverse possibilità che si hanno a disposizione.

Da una lettura complessiva delle decisioni italiane, infatti, si ha la sensazione di trovarsi di fronte ad una giurisprudenza “ondivaga”, di talchè, pur a fronte di identiche situazioni, possono in certi casi ottenersi giudizi discordanti.

Ed allora un soggetto che desideri promuovere una vertenza su un nome a dominio può “guardarsi attorno”, ossia può non rivolgere lo sguardo unicamente verso il Tribunale, perché ci sono dei metodi di risoluzione delle controversie alternativi rispetto alla composizione giudiziale delle liti. Essi sono essenzialmente due: il giudizio arbitrale e la procedura di riassegnazione.

Non mi soffermo sul primo, che – rilevo per inciso – nella realtà concreta dei fatti si è rivelato uno strumento assolutamente insoddisfacente e vado invece ad analizzare la procedura di riassegnazione, la quale è una procedura molto snella e rapida, che – a circa 2 anni dalla sua entrata in vigore – si è messa in luce quale rimedio davvero efficace per combattere il fenomeno del domain grabbing.

Essa ha come scopo esclusivo la verifica del titolo all’uso od alla disponibilità del nome a dominio e l’indagine sulla malafede del registrante: ogni altro tipo di accertamento dovrà essere devoluto ad un giudice od ad un arbitro.

Si tratta, pertanto, di un procedimento speciale col quale si può ottenere solo un provvedimento specifico: la rassegnazione del DN.

La PDR viene gestita da apposite organizzazioni denominate “enti conduttori”, al cui interno operano alcuni professionisti – denominati, con termine piuttosto infelice, Saggi – che materialmente si fanno carico della decisione.

Attualmente gli enti conduttori sono 10 (l’elenco è localizzato in rete a questo URL: http://www.nic.it/NA/maps ), ma va detto che alcuni di essi non hanno ricevuto alcun incarico. In realtà, a voler tracciare un quadro obiettivo della situazione, si deve rilevare che la quasi totalità delle decisioni sono state affidate a 2 solamente: uno che ha sede a Roma, l’altro a Milano. Il primo è CRDD (ex E-Solv), il secondo si chiama Arbitronline.

Per poter chiedere la riassegnazione devono sussistere alcuni presupposti.

Anzitutto, il dominio che si assume essere stato registrato in malafede deve venire “contestato” nei confronti della Registration Authority. E’questo, infatti, il primo “step” che viene imposto a chi voglia intraprendere una PDR. Si tratta, per il vero, di un’azione preliminare molto semplice, che è compiutamente disciplinata dall’art. 14 Reg. Naming. Contestare, in buona sostanza, significa inviare una lettera. Ebbene sì: la contestazione del nome a dominio, infatti, consiste nell’invio di una lettera raccomandata A.R. – debitamente motivata – che il soggetto che assume aver ricevuto pregiudizio dall’assegnazione a terzi di un particolare dominio deve far pervenire alla RA.

La quale, ricevuta la lettera di contestazione, si limita ad aggiungere la annotazione “valore contestato/challenged value” nel RNA; tutto qui, non altro. Ciò però, a ben guardare, comporta conseguenze pratiche di non poco conto, poiché pone seri limiti alla circolazione del dominio, che non sarà più liberamente trasferibile a terzi da parte dell’assegnatario.

Come si ricorderà, per il diritto romano la res litigiosa veniva dichiarata fuori commercio; qualcosa di simile accade nel nostro caso, perché, per effetto della contestazione, il dominio contestato diventa trasferibile unicamente al soggetto che ha posto la contestazione stessa.

Una volta formalizzata la contestazione del DN, entro 6 mesi dovrà essere promossa la procedura di riassegnazione, che – come detto – può portare al trasferimento del nome a dominio che ne è oggetto. Trasferimento – si badi – che verrà disposto solo se venga fornita idonea prova della sussistenza di tutti e tre i presupposti di cui all’art. 16.6 delle Regole di Naming.

Deve, in altre parole, essere dimostrato che:

a) il nome a dominio è identico o tale da indurre confusione con un marchio su cui il ricorrente vanta diritti, o col proprio nome e cognome;

b) il resistente non ha alcun diritto o titolo in relazione al nome a dominio contestato;

c) il dominio è stato registrato e viene usato in mala fede.

Se il ricorrente prova che sussistono assieme le condizioni a) e c) di cui sopra ed il resistente non prova a sua volta di avere diritto o titolo in relazione al nome a dominio contestato, quest’ultimo viene trasferito al ricorrente.

Ciò posto, andiamo a vedere come si faccia in concreto a dar impulso alla presente procedura, avvertendo fin da subito che le modalità operative sono descritte – oltre che nelle Regole di Naming e nei Regolamenti interni predisposti da ciascun Ente Conduttore – anche da un corpo normativo denominato “Procedura di Riassegnazione”, al quale si farà spesso riferimento e che si trova liberamente consultabile in Rete al seguente indirizzo:

https://www.nic.it/NA/riassegnazione-curr.txt

Particolarmente importante l’art. 3 P.d.R, che individua il contenuto del reclamo, che dev’essere inviato dal ricorrente all’Ente prescelto sia in forma cartacea (in duplice copia) sia in formato elettronico. Viene precisato, al 2°comma, che esso può avere ad oggetto anche più nomi a dominio, purchè appartenenti al medesimo titolare.

La 1°parte del reclamo contiene “i dati essenziali” della procedura: si trovano, infatti, le generalità ed i recapiti delle parti.

Nella parte narrativa del reclamo devono invece essere indicati e provati i presupposti sostanziali della procedura la cui prova incombe al ricorrente (e cioè si tratta delle condizioni sub a) e c)). Vanno pertanto indicati i motivi per i quali il nome a dominio risulterebbe identico o confondibile col marchio o col nome e cognome del ricorrente ed i motivi per i quali il resistente avrebbe registrato ed userebbe il dominio in malafede.

In allegato al reclamo devono essere presentati i documenti che lo supportano ed in particolare deve essere fornita la prova della registrazione del segno distintivo o del marchio cui il reclamo si riferisce.

Unitamente al reclamo il ricorrente deve versare il corrispettivo stabilito (il quale varia per ogni Ente Conduttore, che ha facoltà di decidere il prezzo della procedura, col solo limite di non applicare tariffe inferiori a 400 euro). Le spese – è opportuno sottolinearlo – sono ad esclusivo carico del ricorrente, dato che in questa procedura esse non seguono la regola della soccombenza: il resistente, pertanto, non dovrà mai sopportare alcun costo.

Una volta che il reclamo è pervenuto all’Ente Conduttore, questo ne verifica la regolarità formale e, se l’operazione si conclude con esito positivo, procede all’invio del reclamo al resistente.

Il resistente ha così conoscenza del reclamo ed ha da tale momento 25 giorni di tempo per inviare all’Ente Conduttore un proprio scritto difensivo.

Nella replica (che, quanto alle “modalità di trasmissione”, soggiace ai medesimi obblighi già visti per l’invio del reclamo) il resistente deve confutare le affermazioni del ricorrente, evidenziando – in particolare – i motivi per i quali ritenga di avere titolo al mantenimento del dominio già assegnatogli.

Giova ricordare che il resistente non è tenuto ad inviare detta replica, in quanto ha una mera facoltà e non un obbligo di presentare una memoria a sostegno delle proprie ragioni.

“Se il resistente non invia alcuna replica – precisa, infatti, l’ultimo comma dell’art. 5 P.d.R. – il Collegio decide la controversia sulla base del solo reclamo”.

E molto spesso il resistente non presenta alcunché. Trovo, comunque, che sia sempre preferibile far pervenire uno scritto, per mettere il Saggio in condizione di decidere più serenamente. Ovviamente “est modus in rebus”, perché – all’opposto – ci sono irriducibili personaggi che fanno arrivare note difensive davvero bizzarre (giorgio-armani.com: il resistente, giapponese, sosteneva di aver diritto al nome a dominio, perché “giorgio-armani” era il nome… del suo cane!!).

Il Collegio viene formato dall’Ente Conduttore, in forma monocratica o collegiale a seconda della scelta effettuata dal ricorrente che dovrà limitarsi ad indicare il tipo del collegio decidente, senza poter nominare direttamente il Saggio (ciò è peraltro evidente: in caso contrario la parte che promuove la procedura potrebbe praticamente “scegliersi il giudice”. Ed infatti dato che l’elenco dei saggi è pubblico, come pubbliche sono anche le decisioni da costoro rese, sarebbe facile in linea teorica capire quale possa essere l’orientamento più favorevole ad uno specifico caso).

Il Collegio si ritiene costituito con l’accettazione dell’incarico, ricevuta dall’unico Saggio o dal terzo dei tre.

Le modalità di svolgimento della procedura sono stabilite liberamente dal Collegio, il quale deve tuttavia assicurare un trattamento imparziale alle parti, concedendo ad ognuna di esse un uguale diritto di difesa.

Un punto centrale – e che tuttavia non è stato preso in considerazione da parte della dottrina con l’attenzione che invece avrebbe meritato – riguarda l’ampiezza (ed i limiti) dei poteri istruttori del Saggio.

Ci si chiede, in altre parole, se il Saggio, nel decidere la lite, sia vincolato alle allegazioni della parti o possa invece formare il suo convincimento aliunde. La questione, all’evidenza, non è mera disputa accademica, ma problema concreto, pratico. Peraltro molto frequente, perché la parte (che non è tenuta ad avvalersi dell’assistenza di un professionista nella redazione del reclamo o della replica) spesso sorvola su aspetti che avrebbe invece dovuto illustrare compiutamente (per tutti: le ipotesi di malafede). Le regole che disciplinano la procedura sul punto tacciono. Va detto che certa dottrina riconosce al Collegio la possibilità di effettuare d’ufficio le indagini che quest’ultimo ritiene indispensabili per pervenire ad una corretta decisione. Sembra però preferibile – anche per non forzare la lettera delle regole – accogliere l’opposto orientamento e dunque ritenere che il Collegio debba assumere la propria decisione unicamente sulla base delle affermazioni rese dalle parti e dei documenti prodotti (cfr. art. 15 P.d.R).

Potrà il Saggio, eventualmente, richiedere a ciascuna delle parti ulteriori precisazioni e documenti (come previsto ex art. 12 P.d.R.). Anche in questo caso, tuttavia, la laconicità del disposto testè citato non chiarisce se il collegio debba limitarsi a prospettare genericamente ai soggetti in lite di argomentare più diffusamente le rispettive posizioni ovvero se abbia la possibilità di formulare specifici quesiti alle parti (es: se il resistente abbia “fatto incetta” di domini corrispondenti a marchi celebri). Per restare all’esempio fatto, è evidente che, così facendo, il Saggio ricaverebbe preziose informazioni in ordine alla malafede del resistente; e tuttavia non sembra possibile che il Collegio possa arrogarsi tali poteri.

Una caratteristica del procedimento collegiale è la sua celerità, per cui tutti i termini, salvo eccezioni, sono perentori e comportano per chi non li rispetta la decadenza dal potere di compiere quel determinato atto.

Entro 15 giorni dalla sua formazione (30 nel caso in cui siano stati chiesti alle parti chiarimenti) il Collegio rende nota la propria decisione all’Ente Conduttore, che a sua volta provvede, nei 4 giorni successivi, a comunicarla alle parti, alla RA ed al presidente della NA.

E’importante sottolineare che il Collegio può accogliere il ricorso solo nel senso di disporre il trasferimento del DN, mentre null’altro può essere disposto in positivo. Ed infatti nella PDR il ricorrente può solo chiedere il trasferimento del nome a dominio, non anche la cancellazione dello stesso. E’, a mio avviso, un limite della procedura in esame. Sul punto mi limito ad osservare che le “analoghe” procedure amministrative adottate dall’ICANN (le c.d. MAP, che hanno “ispirato” la nostra PDR) prevedono per il ricorrente la sopra evidenziata doppia possibilità (si parla, espressamente, di “transfer” come alternativa alla “cancellation”). E, a quanto mi risulta, in più occasioni il ricorrente opta proprio per la cancellazione (come avvenuto nel caso nokiagirls.com, dominio dal nome equivoco che la Nokia desiderava unicamente venisse “tolto dalla scena”, non essendo evidentemente interessata all’assegnazione dello stesso a proprio nome).

Da noi, come detto, non c’è sulla carta la possibilità della cancellazione del DN, ma un “escamotage” può permettere al ricorrente di ottenere al lato pratico lo stesso risultato. Mi spiego. E’noto infatti che la pronuncia che dispone la riassegnazione non effettua un vero e proprio trasferimento del nome a dominio (cfr. art. 14 Regole di Naming); la RA, ricevuta la decisione, revoca il DN ed invita il ricorrente ad inviare la LAR, per dare così inizio alla richiesta del dominio oggetto di decisione. In particolare, se la procedura per l’assegnazione non viene intrapresa entro 30 giorni il DN può essere nuovamente e liberamente assegnato a chiunque ne faccia richiesta.

Come si vede, se il ricorrente lo desidera può non dar seguito al trasferimento del nome a dominio, lasciando decorrere il periodo di 30 giorni senza attivarsi. Di fatto il dominio è stato cancellato.

Un’altra particolarità della decisione. Se il Saggio ritiene che il reclamo sia stato promosso in malafede (magari per screditare l’assegnatario del DN) nella decisione si fa menzione di tale fatto e questa parte della decisione viene sempre pubblicata, anche qualora la pronuncia non venga resa integralmente disponibile on line.

La ratio di questa previsione è, all’evidenza, quella di disincentivare il c.d. “riverse domain name hijacking”: fenomeno piuttosto diffuso per il quale i titolari di un marchio registrato – il più delle volte “celebre” – hanno tentato di approfittare della loro posizione privilegiata cercando di farsi assegnare un dominio già legittimamente registrato da un terzo, titolare, a sua volta, di un concorrente diritto sul dominio stesso (es.: se Giorgio Armani promuovesse una PDR per armani.it, registrato dall’omonimo timbrificio di Treviglio (BG)). (vedasi, per riferimenti concreti, le decisioni cimone.it, dvditalia.it).

Ricostruito così, nei suoi momenti essenziali, l’iter della presente procedura, andiamo ora ad esaminare più da vicino l’art. 16.6 Reg. Naming, norma davvero centrale per la corretta comprensione della PDR. E’la norma fondamentale, la trave portante dell’impalcatura della PDR, la disposizione che deve avere sempre “sotto gli occhi” il saggio che va a decidere la lite.

Perché, come abbiamo visto, 3 sono i presupposti che sorreggono – da un punto di vista giuridico – il trasferimento del nome a dominio contestato a favore del ricorrente e tutti e 3 tali presupposti sono disciplinati dalla norma poc’anzi citata.

Andiamo, perciò, ad analizzare l’art. 16.6, che individua subito – alla lettera a) – la prima condizione che dev’essere soddisfatta.

a) il nome a dominio contestato dev’essere identico o tale da indurre confusione rispetto ad un marchio su cui il ricorrente vanta diritti, o al proprio nome e cognome.

Il punto a) deve esere dimostrato dal ricorrente nei modi consueti, fornendo prova dell’esistenza di un proprio marchio o del proprio nome e cognome.

Nel silenzio della norma, occorrerà stabilire in concreto se la PDR potrà venire utilizzata, oltre che per tutelare marchi registrati, anche per tutelare marchi di fatto, ragioni sociali o altri segni distintivi (quali il titolo di una testata giornalistica, o uno slogan).

Il fatto che l’art. 16.6 faccia riferimento solo ad un marchio sembrerebbe escludere la possibilità di avvalersi della procedura per difendere ogni tipo di segno distintivo, ma ogni timore viene risolto dalla lettura contestuale dell’art. 3 Proc. Riass., che – nello stabilire il contenuto del reclamo – fa espresso riferimento ai segni distintivi, oltre che ai marchi.

Sempre con riferimento al punto a) devo evidenziare che – a mio parere – a nulla rileva che il marchio sia stato registrato in Italia o altrove, dato che le vigenti regole di Naming richiedono genericamente che il ricorrente vanti diritti su un marchio, indipendentemente dalla Nazione in cui questo è stato registrato.

D’altronde osservo che numerose decisioni relative a TLD “geografici” (e “geografico” è anche il “.it”) hanno disposto il trasferimento di domini in favore di soggetti che avevano dato prova di essere titolari di marchi registrati in Paesi diversi rispetto allo Stato di registrazione del dominio contestato (vedasi – a titolo meramente esemplificativo – le seguenti pronunce, relative al ccTLD “.tv” – Isole Tuvalu, Oceania – nonché al ccTLD “.ws” – Western Samoa, Oceania – : “gomaespuma.tv”, “Halifax.tv”, “nasdaq.tv”, “nokia.ws”, “zippo.ws”). Tutte queste considerazioni sono state esplicitate nella decisione che chi scrive ha reso relativa al dominio “antago.it”, ad oggi l’unica pronuncia italiana che ha dovuto affrontare questo problema.

Passiamo ora all’esame del 2° presupposto richiesto per la riassegnazione del dominio.

La lettera b) testualmente recita: “il resistente non ha alcun diritto o titolo in relazione al dominio contestato”. Sarà, pertanto, onere del resistente dare prova di un proprio concorrente diritto o titolo al nome a dominio, oppure dell’esistenza di una delle circostanze dalle quali l’art. 16.6 u.c. Reg. Naming deduce la presunzione di un legittimo uso del resistente al nome a dominio contestato (es.: egli è conosciuto col nome corrispondente al DN contestato, anche se non ha registrato il relativo marchio, oppure che del DN sta facendo un legittimo uso non commerciale, e così via…).

Come ben affermato dall’Avv.Ziccardi nella decisione “dinersclub.it/dinersclubitalia.it”, le prove previste dalla lett.b) “devono sempre essere tenute in grande considerazione, per evitare che le PDR vengano utilizzate unicamente per garantire al più forte economicamente, quasi d’ufficio, diritti su domini correlatati ai segni distintivi del ricorrente”.

Il 3° presupposto richiede che il DN sia stato registrato e venga usato in mala fede.

E’una condizione molto importante, un aspetto cruciale, e rivela che non ogni ipotesi di contraffazione del marchio sia ritenuta illecita ai fini della presente procedura. In altre parole, non si può colpire con lo strumento della PDR una contraffazione di marchio attuata in buona fede. Si potrà, volendo, adire l’Autorità Giudiziaria ordinaria per vedere applicata la legge marchi, che reprime fenomeni di contraffazione più ampi, perché non dà rilevanza all’elemento soggettivo. Ma questo è un altro discorso, che esula dalla tematica di cui ci stiamo occupando.

Ciò posto, va detto che l’art. 16.7 Reg. Nam. elenca una serie di circostanze che, se dimostrate dal ricorrente, saranno ritenute prova della registrazione e dell’uso del dominio in malafede da parte del resistente (es.:il dominio è stato registrato per essere trasferito a caro prezzo al ricorrente, oppure per impedire al titolare di identico marchio di registrare in proprio tale nome a dominio, ecc.).

La disposizione poc’anzi citata, all’ultimo comma, si affretta però a precisare che l’elencazione delle “presunzioni di malafede” è meramente esemplificativa. Il Collegio potrà, pertanto, rilevare anche da altre circostanze elementi di malafede. Mi sembra corretto. Anzi, personalmente ritengo che, ai fini della procedura in esame, il termine “malafede” vada inteso nella sua accezione più ampia. Il che, per così dire, impone un’indagine “a 360° gradi” sul comportamento del titolare del dominio, al fine di indagare se emerga un “agire scorretto” di quest’ultimo, indice della sua consapevolezza di ledere diritti di terzi.

Così, passando in rassegna la giurisprudenza sul tema, annoto che è stato ritenuto essere in malafede chi registra un DN al solo scopo di impedire al ricorrente di portare sul web il proprio segno distintivo (cioè, come si legge di frequente, di impedire al ricorrente di riflettere sul DN il proprio nome o il proprio segno distintivo legittimamente registrato). (cfr. decisione aol.it)

Altre volte viene vista come indice di malafede – unita ad altre risultanze – la circostanza che il resistente abbia registrato altri domini in nessun modo riferibili alla sua attività, ma relativi a marchi e denominazioni di imprese famose. (barbie.it, pursennid.it, antago.it, ecomusei.it)

In certi casi, è stato considerato sintomo di malafede la detenzione passiva di un nome a dominio (c.d. “passive holding”, termine tecnico utilizzato anche da noi in Italia per definire correttamente tale fattispecie ): la detenzione, cioè, di un dominio cui non sono collegati contenuti raggiungibili tramite il protocollo http. Detto altrimenti – ed in termini più semplici –si tratta della mancata attivazione del sito (classica ipotesi, certamente nota a tutti, è la “pagina bianca” in cui campeggia la scritta “sito in costruzione”). (aol.it, guidasposi.it)

O ancora, per restare in tema, l’attivazione del sito solo in un momento successivo alla comunicazione del reclamo. E’un caso realmente accaduto, e ci si riferisce al dominio avid.it, nel quale – a seguito del reclamo del ricorrente (AVID, multinazionale leader nel settore della fornitura di strumenti audio e video digitali) – il resistente ha attivato un’improbabile pagina web che faceva riferimento ad un ipotetico “Avid – antiarrhytmics versus implantable defribrillators”, a dire del resistente il titolo di un articolo medico pubblicato sul New England Journal of Medicine. Ma anche questo, all’evidenza, si è rivelato uno “stratagemma” davvero poco astuto, ritenuto, invece, elemento di malafede.

Talora, poi, sono le pagine stesse del sito a provare – ictu oculi – la malafede del resistente (spesso, infatti, il sito è stato predisposto con il preciso intento di far credere all’ignaro visitatore di essere entrato nel sito ufficiale del ricorrente). (antago.it)

Tirando ora le fila di quanto fin qui detto sulla procedura di riassegnazione – ed avviandoci a concludere – va osservato che l’ambito della cognizione attribuita al Collegio è limitata all’accertamento della sussistenza dei presupposti richiesti dall’art. 16.6 Reg. Naming per il trasferimento del nome a dominio contestato. Deve essere chiaro, in altre parole, che la PDR è un’alternativa differente, in tutto e per tutto, rispetto alla composizione giudiziale delle liti.

Presentata così, la PDR sembra essere la “panacea” di tutti i mali che attualmente affliggono i domain names, in relazione al domain grabbing.

Indubbiamente, che sia uno strumento efficace è ormai assodato e ciò è testimoniato anche dal crescente successo che la procedura sta incontrando presso il pubblico (ad oggi si contano circa 100 decisioni).

Ovviamente presenta lati negativi (tra cui la possibilità che l’attuazione della decisione sia vanificata dall’instaurazione – entro 15 giorni dalla pronuncia del saggio – di una causa ordinaria dinanzi all’Autorità Giudiziaria), ma senz’altro superiori sono i “punti di forza”: la competenza del saggio, i costi contenuti e la celerità della procedura, abissale se paragonata ai tempi della giustizia ordinaria.

Quindi – e per concludere – invito a considerare che, nell’ambito di una contesa su un dominio, oltre alla composizione giudiziale delle liti, ci sono strumenti di risoluzione alternativi: il giudizio arbitrale e la procedura di riassegnazione, che presenta senza dubbio profili di assoluto interesse.

Cookie, le nuove regole

Cookie, una recente ricerca ha portato alla luce una realtà molto amara: il 97% dei siti web in Europa non rispetta almeno una delle previsioni del GDPR. Il dato è emerso a pochissimi giorni dall’entrata in vigore definitiva delle Nuove Linee Guida del Garante per la protezione dei dati personali in tema di privacy e cookie sui siti web:

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I siti web non in regola sono quindi sanzionabili e webmaster e proprietari possono incorrere in sanzioni fino al 4% del fatturato annuale.

Per approfondire > Garante Italiano: in una pagina a tema tutte le nuove linee guida adottate sui cookie


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  • per l’utente navigante consente la visualizzazione non solo delle informative, ma anche di esprimere un consenso granulare secondo le proprie volontà. L’utente potrà anche modificare le proprie preferenze in qualsiasi momento, grazie al pannello di controllo che vedrà sempre disponibile sul sito web. Il sito web ne guadagnerà in reputazione verso l’utente, che sentirà tenute davvero in considerazione le proprie preferenze. 

Acconsento.click ha recepito le nuove Linee Guida

Le nuove Linee Guida del Garante sono entrate in vigore il 10 Gennaio 2022: adesso i siti web non conformi sono sanzionabili. Con il supporto di importanti studi legali, abbiamo studiato approfonditamente tutte le novità e le abbiamo integrate in Acconsento.click. Adottare Accosento.click renderà immediatamente conforme alle normative attuali (non solo il GDPR, ma anche le Linee Guida del Garante per la protezione dati personali e dell’ European Data Protection Board).

Le novità che abbiamo introdotto non sono soltanto miglioramenti funzionali, ma vengono incontro a PRECISI OBBLIGHI NORMATIVI.

Ecco tutte le novità introdotte:

    • Cookie banner:
      i pulsanti “Accetta” e “Rifiuta” sono stati resi obbligatori. Le informative che non prevedono la possibilità di rifiutare il consenso non sono più legali.
    • Scelte granulari per l’utente:
      l’utente adesso può esprimere scelte granulari sulle funzionalità, le terze parti e le categorie di cookie da installare.
    • Preferenze modificabili in qualsiasi momento:
      l’utente adesso può aggiornare le proprie preferenze di tracciamento in qualsiasi momento.
    • Raccolta del consenso per scorrimento:
      il consenso via semplice scorrimento del mouse è stato reso non valido, come previsto dalla Nuova Normativa.
    • Stop al cookie wall:
      il cookie wall è stato eliminato. Le nuove disposizioni hanno infatti reso illegale l’obbligo di accettare i cookie per poter accedere ai contenuti di un sito web.
    • Validità delle preferenze dell’utente relative al consenso:
      dopo aver chiesto il consenso la prima volta, viene mantenuto per 6 mesi prima di poterlo chiedere nuovamente, salvo se viene svuotata la cache o se vengono cambiate le preferenze dall’utente stesso. 
    • Prova del consenso:
      Acconsento.click fornisce tutto il necessario per dimostrare, in caso di bisogno, che il gestore del sito ha ottenuto un consenso al trattamento dei dati valido perchè espresso secondo le previsioni del GDPR e delle Nuove Linee Guida Cookie.

Insomma non si potranno più utilizzare i cookie?
No affatto, Acconsento.click tiene conto dell’utilità e del valore che i cookie possono fornire ai gestori di un sito web: ecco cosa sarà possibile fare rimanendo conformi alla normativa vigente

  • Installazione di Cookie statistici (analytics)
    i cookie statistici di prima parte possono essere installati senza il consenso dell’utente (e senza blocco preventivo).
  • Installazione di Cookie statistici di terza parte
    I cookie statistici di terza parte possono essere installati senza il consenso dell’utente (e senza blocco preventivo) solo a determinate condizioni, che possiamo valutare assieme.

Il tuo sito web è in regola? E quello dei tuoi clienti?
Contattaci, valutiamolo assieme e risolviamo il problema!

Adottare Accosento.click garantisce la conformità alle normative attuali in fatto di privacy e cookie!

Comunicazione DPO

Comunicazione DPO al Garante Privacy, la procedure online semplifica la comunicazione.

La procedura online è disponibile oltre che per pubbliche amministrazioni, anche per le imprese tenute alla nomina del DPO, responsabile della protezione dei dati, devono utilizzare per effettuare le dovute comunicazioni al Garante Privacy. Si tratta, lo ricordiamo, dell’adempimento previsto dall’articolo 37 del GDPR, il tanto atteso Regolamento UE che entra in vigore in tutti gli Stati Membri il 25 maggio.

La procedura per la comunicazione dei dati del DPO (RPD – Responsabile Protezione Dati), è disponibile online sul sito dell’Authority. Nei giorni scorsi, il Garante aveva pubblicato un fac-simile della comunicazione, puramente esemplificativa, per consentire ai soggetti coinvolti di familiarizzare con l’adempimento.

Dati richiesti

Il modulo da compilare si compone di quattro parti. Nella sezione A si inseriscono altri dati relativi al soggetto che effettua la comunicazione. E al momento che il titolare del trattamento è l’impresa o il professionista tenuto alla comunicazione dei dati o la pubblica amministrazione, la comunicazione sarà effettuata dal legale rappresentante dell’azienda o dell’ente, o da un suo delegato. Bisogna indicarne cognome, nome e indirizzo di posta elettronica. Se la comunicazione è effettuata dal rappresentante legale, bisogna indicare anche nome e cognome del delegante.

La sezione B è dedicata al titolare o responsabile del trattamento. In base alla definizione contenuta nel GDPR, il titolare del trattamento è:

la persona fisica o giuridica, l’autorità pubblica, il servizio o altro organismo che, singolarmente o insieme ad altri, determina le finalità e i mezzi del trattamento di dati personali.

Il responsabile del trattamento è :

la persona fisica o giuridica, l’autorità pubblica, il servizio o altro organismo che tratta dati personali per conto del titolare del trattamento.

Si barra la casella relativa all’iscrizione o meno agli indici nazionali dei domicili digitali e poi si compilano i campi seguenti: denominazione, codice fiscale o partita IVA, e via dicendo. Se il soggetto risulta iscritto agli indici nazionali, è obbligatorio indicare l’indirizzo PEC (posta elettronica certificata), mentre la mail ordinaria è facoltativa. Viceversa, per coloro che non sono iscritti agli indici nazionali, o che operano in altri stati, è obbligatorio compilare il campo dedicato all’e-mail mentre è facoltativa la PEC.

I gruppi imprenditoriali, dovranno compilare anche l’apposita sezione B1, segnalando se il soggetto che effettua la comunicazione è la controllante, una controllata, o se non fa parte di un gruppo imprenditoriale che si è avvalso della designazione del RPD di gruppo.

 

La sezione C riguarda il Responsabile della Protezione Dati (Data Protection Officer). Si indica innanzitutto se il soggetto è interno o esterno (in questo caso, bisogna anche specificare se si tratta di persona fisica o giuridica) e quindi si compilano i campi relativi alle sue generalità e ai dati di contatto.

 

Infine, la sezione D è dedicata alle modalità con cui il titolare dei dati decide di pubblicare i dati di contatto del DPO (sito web o altro).

 

Dopo aver compilato e inviato il file digitale, arriva una mail con un file allegato, che va sottoscritto con firma digitale o firma elettronica qualificata e inviato in formato CAdES, il tutto entro 48 ore. Il file così inviato costituisce l’avvenuta comunicazione: verrà analizzata dal Garante, che può rigettarla o accoglierla.

Attenzione: è molto importante che il file firmato digitalmente corrisponda perfettamente a quello contenuto nella mail inviata, quindi il consiglio è di non aprire il file ricevuto, limitandosi a salvarlo in locale e ad apporre la firma digitale, per non rischiare di vedersi rifiutare la domanda. L’eventuale rigetto è comunicato via mail (all’indirizzo indicato nella sezione A del modulo).

Se invece la comunicazione viene considerata valida, il soggetto che ha effettuato la comunicazione riceve (sempre via mail), un numero di protocollo utilizzato per la registrazione dei dati comunicati. Il titolare del trattamento riceve, all’indirizzo di posta elettronica indicato nella sezione B, un documento informatico con le informazioni inserite all’atto della compilazione del modulo e l’indicazione del numero di protocollo utilizzato per la registrazione dei dati comunicati. Il soggetto designato come responsabile del dati riceverà, mediante comunicazione inviata all’indirizzo PEC indicato al punto 5 della sezione C, un documento informatico contenente le informazioni inserite all’atto della compilazione del modulo e l’indicazione del numero di protocollo utilizzato per la registrazione dei dati comunicati.

Il numero di protocollo diventa il riferimento per tutte le successive comunicazioni con il Garante privacy.

Green Pass, la soluzione

Green Pass, il famigerato “biglietto verde”, sta facendo impazzire imprenditori e pubbliche amministrazioni.

I consulenti inviano continuamente registri e modelli, i responsabili del G.D.P.R., informative e lettere di incarico, alcuni favorevoli al registro dei controlli, altri sfavorevoli.

La maggiore difficoltà si incontra per il titolare, nel dover/poter verificare nel più breve tempo possibile l’effettiva validità del Grenn Pass.

La soluzione oltre ad esistere, è anche facilmente percorribile ad un costo accessibilissimo. Viene in nostro aiuto una soluzione sviluppata da una azienda Leader nel settore della gestione delle presenze.

Parliamo di Libemax S.r.l., azienda Bergamasca, specializzata nella gestione delle problematiche legate alle timbrature, presenze, controllo accessi e gestione.

Libemax ha ideato svariate modalità per supportare, sistemi che non richiedono la presenza di un operatore dedicato (a differenza di App Verifica C19).

Usando l’algoritmo della validazione europea, il Lettore Green Pass consente la verifica di tutti i certificati rilasciati in Europa e, garantendo al 100% la tutela della privacy, non memorizza in alcun modo i dati sanitari e sensibili.

Come da DPCM del 12 ottobre 2021:
Oltre all’app “VerificaC19”, saranno rese disponibili per i datori di lavoro, pubblici e privati, specifiche funzionalità che consentono una verifica quotidiana e automatizzata del possesso delle certificazioni. Tali verifiche potranno avvenire attraverso: l’integrazione del sistema di lettura e verifica del QR code del certificato verde nei sistemi di controllo agli accessi fisici, inclusi quelli di rilevazione delle presenze, o della temperatura;

Grazie all’integrazione con App Rilevazione Presenze, prima di ogni timbratura di ingresso al dipendente viene richiesto il Green Pass. Se il certificato è memorizzato sul dispositivo della persona, il processo è automatico.

Ecco le due soluzioni cheil nostro partner Libemax ha ideato:

Funzionalità Presenze

Ogni giorno, alla prima timbratura, verrà richiesto al dipendente di scansionare il QR Code o di caricarlo da galleria (immagine o PDF).

Per tutte le successive timbrature della giornata non sarà più richiesto nulla.

Il giorno successivo, alla prima timbratura, verrà selezionato in automatico il Green Pass verificato il giorno precedente (non viene memorizzato sui nostri server, ma sul dispositivo del dipendente). Se valido non verrà segnalato nulla, al contrario sarà richiesto di aggiornarlo.

Da pannello web sarà possibile vedere lo stato dei certificati dei dipendenti della giornata e i dati anonimizzati dei giorni precedenti.

Sono a disposizione API per collegamenti con sistemi esterni.

Timbratrice mobile

Dopo aver passato il badge, ad ogni timbratura di ingresso verrà richiesto di mostrare il Green Pass. Se il certificato non è valido verrà impedita la timbratura.

Da pannello web sarà possibile vedere lo stato dei Green Pass dei dipendenti della giornata e i dati anonimizzati dei giorni precedenti.

Sono a disposizione API per collegamenti con sistemi esterni.

Non esitare a contattare i nostri esperti per fissare un appuntamento gratuito ed una dimostrazione pratica, potete anche inviare una email a greenpass@mbli.it, sarete ricontattati al più presto.

Qlocker, dati criptati da ransomware con riscatto in Bitcoin


Qlocker, è il nome del ramsonware che attualmente sta effettuando un’enorme campagna di contagi, che ha come obiettivo quello di crittografare i dati degli utenti che utilizzano dispositivi di archiviazione di tipo NAS, in particolare a marchio QNAP.

Gli aggressori utilizzerebbero 7-zip per la compressione dei dati in archivi protetti da password e chiederebbero il pagamento di un riscatto in Bitcoin.

Il ransomware che sta terrorizzando gli utenti QNAP sin dal 19 aprile scorso (2021) viene identificato con il nome di Qlocker. Secondo quanto spiegato dai colleghi di BleepingComputer, il ransomware sarebbe in grado di utilizzare 7-zip per spostare tutti i dati degli utenti all’interno di archivi compressi e protetti da password.

Mentre l’attacco da Qlocker è in corso, il gestore delle risorse dei NAS QNAP mostra numerose istanze di 7-zip (7z) in esecuzione da riga di comando.

 

Quando il ransomware Qlocker termina la propria procedura, i file del dispositivo QNAP sono memorizzati in archivi 7-zip protetti da password dall’estensione .7z. Per estrarre questi archivi, le vittime devono inserire una password conosciuta solo dall’attaccante.

Dopo che i dispositivi QNAP sono criptati, gli utenti vengono lasciati con una nota di riscatto chiamata “!!!READ_ME.txt” che include una chiave client unica che le vittime devono inserire per accedere al sito di pagamento Tor del ransomware. A tutte le vittime viene detto di pagare 0,01 Bitcoin, l’equivalente di circa 450 euro al momento della scrittura di questo articolo, per ottenere la password necessaria a liberare i propri dati.

 

Recentemente QNAP ha risolto alcune vulnerabilità critiche che potrebbero consentire agli aggressori di ottenere l’accesso completo a un dispositivo ed eseguire un ransomware. QNAP ha risolto queste due vulnerabilità chiamate CVE-2020-2509CVE-2020-36195 il 16 aprile.

QNAP ha risposto alle domande di BleepingComputer affermando che è possibile che Qlocker sfrutti la vulnerabilità CVE-2020-36195 per eseguire il ransomware sui dispositivi vulnerabili. È dunque fortemente raccomandato l’aggiornamento di QTS, Multimedia Console e Media Streaming Add-on alle ultime versioni.

Questo ovviamente non riporterà indietro i vostri file ma vi proteggerà con molta probabilità da futuri attacchi che utilizzano tale vulnerabilità.

Obblighi legali siti WEB

obblighi e leggi per non rischiare sanzioni, la normativa sui siti web è chiara

Aprire un sito web è un’avventura fantastica, che però ha i suoi lati noiosi legati alla burocrazia. Quando si deve pubblicare un progetto online è necessario attenersi alla normativa italiana ed europea relativa alle pubblicazione di contenuti web e al commercio elettronico. Facciamo una rapida analisi della disciplina che regolamenta i comportamenti delle aziende che decidono di lavorare online. 

I dati della tua azienda: come e dove indicarli sul web

Secondo l’Art. 2250 del Codice Civile, tra gli obblighi troviamo i dati societari devono essere obbligatoriamente comunicati online. Ma quali informazioni bisogna comunicare? Dipende dalla natura giuridica dell’azienda:

  • Le Ditte individuali devono indicare la Partita Iva nel sito aziendale (inclusi i siti utilizzati per motivi pubblicitari).
  • Le Società di persone costituite da due o più soci devono comunicare sia negli atti che nella corrispondenza (fatture, DDT) questi dati: la ragione sociale, la sede dell’azienda, codice fiscale/partita Iva, sede del Registro delle Imprese a cui si è registrati e numero di iscrizione e (se esiste) lo stato di liquidazione dell’azienda.
  • Società di capitali di cui fanno parte le Società per Azioni (S.P.A.), le Società a Responsabilità Limitata (S.R.L.) e le Società in Accomandita per Azioni (S.A.P.A.) devono segnalare negli atti, nel sito web, nella corrispondenza (fatture, DDT ed e-mail), nelle pagine aziendali sui social media:

Cosa Comunicare?

  • Ragione sociale
  • Sede della società
  • Partita Iva/ Codice Fiscale
  • Dati relativi al Registro delle Imprese ovvero l’ufficio e il numero di registrazione
  • Capitale sociale relativo all’ultimo bilancio
  • Eventuale stato di liquidazione o stato di società singola

Se non si rispettano queste disposizioni si rischiano delle sanzioni tra i 206 e 2.065 euro inviate dalla Camera di Commercio. Mica male.

E-Commerce: cosa devi sapere se vuoi vendere online, obblighi da rispettare

Il commercio elettronico è regolato dalla normativa comunitaria a cui sono legati i 28 stati membri dell’Unione Europea, vediamo i punti principali della normativa:

  • La direttiva europea 2011/83 detta le leggi del risarcimento: il termine per restituire la merce è di 14 giorni. Le merci si possono restituire anche nel caso si cambi idea o per qualsiasi altra ragione. Eventuali costi di restituzione a carico dell’utente devono essere specificati in anticipo ovvero al momento dell’acquisto o in una pagina apposita dell’e-commerce.
  • I dati del rivenditore e del prestatore devono essere resi pubblici, anche il numero di iscrizione al Registro delle Imprese e l’indicazione degli estremi del responsabile in caso di attività soggette a licenza e altra concessione.
  • Per eventuali extra è vietato ricorrere a caselle preselezionate, come succedeva una volta. Le caselle che elencano i servizi extra devono essere deselezionate di base, sarà poi il cliente a cliccare sui servizi aggiuntivi che desidera acquistare.
  • Il prezzo dei prodotti deve essere chiaro. I costi aggiuntivi devono essere specificati al momento dell’ordine e non al momento del pagamento.

Trattamento della Privacy e i Cookie: tutela i tuoi clienti

I dati sensibili dell’utente che accede o acquista sul sito o che rilascia durante telefonate o altra corrispondenza sono assolutamente riservati. Uno spazio del sito web deve essere destinato all’informativa sulla tutela della privacy. La mancata pubblicazione può dare avvio a sanzioni che vanno dai 6.000 ai 36.000 euro. Per utilizzare i dati dell’utente è necessario un consenso informato, che deve essere dato dopo la lettura di tale informativa. Tra gli obblighi troviamo dal 2012 il comunicare l’uso dei cookies, strumenti che memorizzano i dati di navigazione.

Fusioni e scissioni: puoi comunicarle anche online

Ulteriori obblighi porta il Decreto Legislativo n. 123 del 22 Giugno 2012 che tra le più importanti novità che permettono di raggirare la burocrazia e velocizzare il processo di fusione o scissioni di una società. Se prima si potevano realizzare con con una comunicazione al Registro delle Imprese da qualche anno si possono pubblicare sul sito web aziendale ma questi documenti devono essere autentificati con firma digitale e marcatura temporale.

Se desideri gestire un sito web devi conoscere anche questi lati meno divertenti, ma sempre utili per non rischiare brutte sorprese. Per approfondire l’argomento ti consigliamo di visitare la pagina dedicata alla creazione di nuove imprese in Europa, dove potrai trovare tanti spunti per migliorare il tuo progetto imprenditoriale dal punto di vista legislativo.

PSD2, cosa cambia?

PSD2, porta diverse novità nella gestione dei pagamenti e del denaro.

In un mondo sempre più complesso, consumatori e aziende sono alla ricerca di servizi finanziari che possano aiutarli a perseguire i propri obiettivi.
La rivoluzione del settore dei servizi finanziari è appena cominciata: l’open banking consente ai provider di trasformare il modo in cui persone e imprese gestiscono il denaro.
I clienti potranno avere offerte personalizzate e costi inferiori, mentre i sistemi bancari dovranno abbracciare il concetto di apertura e digitalizzazione.
Non solo, saranno notevolmente rafforzate le misure di sicurezza. Questo grazie a nuovi standard di autenticazione per limitare il rischio frodi.

PSD2, vantaggi e tecnologia

Con la PSD2 (Payment Services Directive 2), l’Unione Europea si è espressa sul tema dei pagamenti elettronici con una direttiva specifica, che va ad impattare in modo importante sull’attività delle banche convenzionali.
All’atto pratico, con la PSD2 si vuole favorire la concorrenza sul mercato dei pagamenti e dare maggiore apertura alle informazioni dei conti correnti bancari.
In questo contesto, i soggetti di riferimento sono molti, con riferimento particolare ai fornitori dei servizi di pagamento. Sono dunque coinvolte le banche, le assicurazioni, le Telco e le società Fintech, sino ai cosiddetti TPP (Third Party Providers). Un aspetto importante riguarda la richiesta implicita nella direttiva: le banche dovranno concedere ai TPP un accesso sicuro ai conti dei clienti e alle informazioni sui pagamenti, allo scopo di concretizzare un mercato europeo dei pagamenti più efficiente.

PSD2 stravolge i canoni consueti di questo settore e apre a una grande varietà di player non tradizionali, generando grandi opportunità per tutte le parti in gioco.  Questo perché spalanca le porte del mercato dei pagamenti anche a parti terze, che offrono servizi basati sull’accesso alle informazioni del conto di pagamento e propongono servizi alternativi, fino ad oggi inesistenti.

Clienti, banche, operatori terzi

I dati che saranno trasmessi tra banche e soggetti terzi riguardano principalmente informazioni essenziali, legate ai prodotti bancari e agli istituti di credito. Ma c’è di più, con PSD2 le transazioni effettuate saranno registrate dalla banca e, successivamente, condivise anche a terze parti. Così si realizza l’open banking, attraverso API dedicate che consentono a nuovi soggetti di entrare nel mercato finanziario. Essi potranno dunque creare nuovi prodotti e servizi smart, ritagliati sulle esigenze dei clienti.

La sicurezza, tutti i giorni

Il regolamento pone particolare attenzione su aspetti quali i requisiti dell’autenticazione forte del cliente. Sussistono poi esenzioni dall’applicazione dell’autenticazione forte sulla base del livello del rischio connesso al servizio prestato, dell’importo e/o della frequenza dell’operazione, del canale di pagamento.
Sono definiti anche i requisiti di riservatezza e integrità delle credenziali di sicurezza personalizzate.
La normativa sancisce anche i requisiti di standard aperti di comunicazione comuni e sicuri. Questo, ai fini dell’identificazione, dell’autenticazione, della notifica e della trasmissione di informazioni, nonché dell’attuazione delle misure di sicurezza, tra i diversi prestatori di servizi di pagamento coinvolti.

Per i clienti, tutto questo si traduce in una maggiore attenzione richiesta, almeno in principio. Il dialogo con il player della catena è fondamentale, così come assicurarsi che la propria banca abbia già predisposto servizi e soluzioni per evitare interruzioni di pagamento o blocchi delle transazioni tramite carta.

E-commerce: maggiore sicurezza nelle transazioni online

Per chi gestisce uno shop online, la normativa garantisce maggiore sicurezza nelle compravendite online e un e-commerce a norma. I consumatori possono effettuare pagamenti, o accedere alle proprie informazioni bancarie, senza doversi preoccupare di possibili frodi o violazioni della privacy.
Una delle grandi novità è l’introduzione della SCA (Strong Customer Authentication). Si tratta di un meccanismo che prevede l’identificazione in due passaggi per chi esegue un acquisto online.
Ad oggi, chi effettua un acquisto o un pagamento online, può semplicemente usare la carta di credito e il relativo numero di sicurezza. Con l’effettiva entrata in vigore della norma, gli acquirenti di prodotti o servizi, dovranno comprovare la propria identità. Per farlo occorreranno due fattori di autenticazione distinti: PIN o password, oppure tramite smartphone precedentemente registrato o una carta della banca dotata di numero di sicurezza. Sussistono, inoltre, altri meccanismi di riconoscimento, come l’identificazione tramite impronta digitale, riconoscimento facciale o vocale.

Per quanto riguarda gli shop online, la SCA prevede un aggiornamento delle procedure di pagamento e l’inclusione di un secondo fattore di autenticazione.
Per una corretta gestione del sito di e-commerce sarà necessario effettuare alcuni adeguamenti. Determinate piattaforme potrebbero richiedere l’implementazione di elementi sul check-out dello shop online. Parliamo di componenti che dovranno necessariamente essere aggiornati per far sì che l’e-commerce rispetti in pieno la norma.

Se si utilizzano architetture open-source (Magento, PrestaShop, WooCommerce), con i relativi plugin per integrare i metodi di pagamento, potrebbe essere sufficiente aggiornare questi elementi all’ultima versione disponibile.
Ciascuno di questi passaggi dovrebbe essere portato a termine da personale debitamente formato e preparato. È dunque consigliabile l’intervento del servizio tecnico, in molti casi offerto direttamente dal provider.

3D Secure 2: un’ulteriore autenticazione contro rischi e truffe

La nuova normativa introduce un ulteriore sistema di autenticazione, denominato 3DS 2.0. Si tratta di uno strumento che permettere di migliorare notevolmente la sicurezza delle transazioni online contro rischi e truffe.
3DS 2.0 è una nuova versione di 3D Secure. Essa semplifica l’autenticazione e facilita i pagamenti online. Rispetto alla variante 3DS, fino ad oggi largamente impiegata, il sistema prevede che l’autenticazione della transazione sia eseguita all’interno dell’App o del modulo di pagamento dell’e-commerce, evitando reindirizzamenti.
Così facendo, la transazione può passare attraverso un flusso di autenticazione semplificato e più veloce.
Non solo, l’attuale 3DS non consente al cliente di pagare utilizzando portafogli virtuali (e-wallet e mobile wallet). La nuova release abilita invece questo genere di risorse, al fianco delle canoniche carte di credito.

3DS 2.0 trasmette alla banca del titolare della carta dati importanti, come l’indirizzo di spedizione, l’ID del dispositivo del cliente e la cronologia delle precedenti transazioni. Conseguentemente, la banca può valutare il livello di rischio, abilitando o meno la transazione.
Si può dunque affermare che 3DS 2.0 ottimizzerà la user experience, diminuirà l’abbandono del carrello e renderà l’autenticazione più dinamica e sicura.

La MBLI S.a.s. di Marchese Daniele Rosario, è partner di player attivi in UE, Aruba Enterprise è Qualified Trust Service Provider nella OBE Directory con CA Actalis e Aruba PEC, per la fornitura di QWAC e QSealC service.

Banche, finance e il settore assicurativo adottano già oggi gli strumenti sicuri Actalis e Aruba PEC, per stare al passo con l’evoluzione tecnologica e normativa.

PSD2, vantaggi e tecnologia

Con la PSD2 (Payment Services Directive 2), l’Unione Europea si è espressa sul tema dei pagamenti elettronici con una direttiva specifica, che va ad impattare in modo importante sull’attività delle banche convenzionali.
All’atto pratico, con la PSD2 si vuole favorire la concorrenza sul mercato dei pagamenti e dare maggiore apertura alle informazioni dei conti correnti bancari.
In questo contesto, i soggetti di riferimento sono molti, con riferimento particolare ai fornitori dei servizi di pagamento. Sono dunque coinvolte le banche, le assicurazioni, le Telco e le società Fintech, sino ai cosiddetti TPP (Third Party Providers). Un aspetto importante riguarda la richiesta implicita nella direttiva: le banche dovranno concedere ai TPP un accesso sicuro ai conti dei clienti e alle informazioni sui pagamenti, allo scopo di concretizzare un mercato europeo dei pagamenti più efficiente.

PSD2 stravolge i canoni consueti di questo settore e apre a una grande varietà di player non tradizionali, generando grandi opportunità per tutte le parti in gioco.  Questo perché spalanca le porte del mercato dei pagamenti anche a parti terze, che offrono servizi basati sull’accesso alle informazioni del conto di pagamento e propongono servizi alternativi, fino ad oggi inesistenti.

Clienti, banche, operatori terzi

I dati che saranno trasmessi tra banche e soggetti terzi riguardano principalmente informazioni essenziali, legate ai prodotti bancari e agli istituti di credito. Ma c’è di più, con PSD2 le transazioni effettuate saranno registrate dalla banca e, successivamente, condivise anche a terze parti. Così si realizza l’open banking, attraverso API dedicate che consentono a nuovi soggetti di entrare nel mercato finanziario. Essi potranno dunque creare nuovi prodotti e servizi smart, ritagliati sulle esigenze dei clienti.

La sicurezza, tutti i giorni

Il regolamento pone particolare attenzione su aspetti quali i requisiti dell’autenticazione forte del cliente. Sussistono poi esenzioni dall’applicazione dell’autenticazione forte sulla base del livello del rischio connesso al servizio prestato, dell’importo e/o della frequenza dell’operazione, del canale di pagamento.
Sono definiti anche i requisiti di riservatezza e integrità delle credenziali di sicurezza personalizzate.
La normativa sancisce anche i requisiti di standard aperti di comunicazione comuni e sicuri. Questo, ai fini dell’identificazione, dell’autenticazione, della notifica e della trasmissione di informazioni, nonché dell’attuazione delle misure di sicurezza, tra i diversi prestatori di servizi di pagamento coinvolti.

Per i clienti, tutto questo si traduce in una maggiore attenzione richiesta, almeno in principio. Il dialogo con il player della catena è fondamentale, così come assicurarsi che la propria banca abbia già predisposto servizi e soluzioni per evitare interruzioni di pagamento o blocchi delle transazioni tramite carta.

E-commerce: maggiore sicurezza nelle transazioni online

Per chi gestisce uno shop online, la normativa garantisce maggiore sicurezza nelle compravendite online e un e-commerce a norma. I consumatori possono effettuare pagamenti, o accedere alle proprie informazioni bancarie, senza doversi preoccupare di possibili frodi o violazioni della privacy.
Una delle grandi novità è l’introduzione della SCA (Strong Customer Authentication). Si tratta di un meccanismo che prevede l’identificazione in due passaggi per chi esegue un acquisto online.
Ad oggi, chi effettua un acquisto o un pagamento online, può semplicemente usare la carta di credito e il relativo numero di sicurezza. Con l’effettiva entrata in vigore della norma, gli acquirenti di prodotti o servizi, dovranno comprovare la propria identità. Per farlo occorreranno due fattori di autenticazione distinti: PIN o password, oppure tramite smartphone precedentemente registrato o una carta della banca dotata di numero di sicurezza. Sussistono, inoltre, altri meccanismi di riconoscimento, come l’identificazione tramite impronta digitale, riconoscimento facciale o vocale.

Per quanto riguarda gli shop online, la SCA prevede un aggiornamento delle procedure di pagamento e l’inclusione di un secondo fattore di autenticazione.
Per una corretta gestione del sito di e-commerce sarà necessario effettuare alcuni adeguamenti. Determinate piattaforme potrebbero richiedere l’implementazione di elementi sul check-out dello shop online. Parliamo di componenti che dovranno necessariamente essere aggiornati per far sì che l’e-commerce rispetti in pieno la norma.

Se si utilizzano architetture open-source (Magento, PrestaShop, WooCommerce), con i relativi plugin per integrare i metodi di pagamento, potrebbe essere sufficiente aggiornare questi elementi all’ultima versione disponibile.
Ciascuno di questi passaggi dovrebbe essere portato a termine da personale debitamente formato e preparato. È dunque consigliabile l’intervento del servizio tecnico, in molti casi offerto direttamente dal provider.

3D Secure 2: un’ulteriore autenticazione contro rischi e truffe

La nuova normativa introduce un ulteriore sistema di autenticazione, denominato 3DS 2.0. Si tratta di uno strumento che permettere di migliorare notevolmente la sicurezza delle transazioni online contro rischi e truffe.
3DS 2.0 è una nuova versione di 3D Secure. Essa semplifica l’autenticazione e facilita i pagamenti online. Rispetto alla variante 3DS, fino ad oggi largamente impiegata, il sistema prevede che l’autenticazione della transazione sia eseguita all’interno dell’App o del modulo di pagamento dell’e-commerce, evitando reindirizzamenti.
Così facendo, la transazione può passare attraverso un flusso di autenticazione semplificato e più veloce.
Non solo, l’attuale 3DS non consente al cliente di pagare utilizzando portafogli virtuali (e-wallet e mobile wallet). La nuova release abilita invece questo genere di risorse, al fianco delle canoniche carte di credito.

3DS 2.0 trasmette alla banca del titolare della carta dati importanti, come l’indirizzo di spedizione, l’ID del dispositivo del cliente e la cronologia delle precedenti transazioni. Conseguentemente, la banca può valutare il livello di rischio, abilitando o meno la transazione.
Si può dunque affermare che 3DS 2.0 ottimizzerà la user experience, diminuirà l’abbandono del carrello e renderà l’autenticazione più dinamica e sicura.

Banche, finance e il settore assicurativo adottano già oggi gli strumenti sicuri Actalis e Aruba PEC, per stare al passo con l’evoluzione tecnologica e normativa.

VPN, cos’è e come funziona

Le Virtual Private Network (VPN) rappresentano un modo per estendere l’accessibilità delle reti aziendali anche a utenti remoti e altri siti dell’impresa in modo il più possibile sicuro, flessibile ed economico. Possono essere oggi implementate in diverse modalità per venire incontro alle specifiche esigenze degli utenti.

Quasi tutte le aziende che hanno una rete informatica interna, con computer, server e sistemi di archiviazione dei dati, hanno anche anche dipendenti o collaboratori che si trovano a lavorare (stabilmente o temporaneamente) in mobilità o da casa. Molte hanno anche sedi distaccate, più piccole di quella centrale, quali uffici periferici, punti vendita, magazzini o stabilimenti. Da anni esiste la tecnologia VPN (Virtual Private Network) per risolvere queste problematiche. Vediamo di cosa si tratta.

Cos’è una VPN e a cosa serve

Il significato di VPN è Virtual private network ed essa consente alle aziende di ampliare praticamente senza limiti geografici la propria rete privata centrale, creando una “rete virtuale privata”, che permette a utenti e siti periferici (branch) di connettersi al “major network” aziendale attraverso reti IP geografiche noleggiate da provider di telecomunicazioni, basate sul protocollo Mpls (Multiprotocol Label Swithcing), o reti pubbliche e condivise come Internet e le piattaforme cloud.

Grazie alle VPN Mpls o quelle over Internet, gli utenti remoti o i siti esterni di un’azienda possono collegarsi, da qualsiasi parte del mondo, in qualunque momento e con i dispositivi più disparati, alla LAN (Local area network) delle proprie sedi aziendale, in modo sicuro e il più possibile economico. Nell’ambito di queste connessioni, i client possono stabilire comunicazioni con un singolo computer o con tecnologie condivise con altri utenti quali un server applicativo, un database, un NAS (Network Attached Storage), stampanti e così via.

Cosa significa tunneling?

Alla base del funzionamento di una Virtual Private Network vi è la creazione di un tunnel (ovviamente virtuale) all’interno del quale due o più partecipanti a una sessione virtual private network possono scambiarsi dati al riparo da occhi indiscreti. Per la creazione di questo canale privato, pur utilizzando un’infrastruttura condivisa, è necessario un protocollo di tunneling. Di queste tecnologie oggi ne esistono di diverse, ma tutte hanno in comune alcuni aspetti.

Ecco come funziona una VPN

Innanzitutto nel data center dell’azienda, o nel suo private cloud (nel caso si abbia optato per questa soluzione) deve essere installato un server VPN, chiamato anche Virtual private network Hub o Central Hub, su cui sono gestiti tutti e tre i livelli del framework di sicurezza di una Virtual Private Network:

  • un sistema di autenticazione degli utenti,
  • un layer per la gestione dei metodi di cifratura dei dati scambiati fra i vari nodi della rete,
  • un firewall che controlla gli accessi alle diverse porte delle reti.

Il VPN Hub deve essere anche connesso a un router e a uno o più switch che permettono l’assegnazione di indirizzi IP pubblici (statici o dinamici) a tutti i partecipanti della VPN (dati che devono necessariamente essere presenti negli header dei pacchetti incapsulati nei tunnel).

Quindi, tutti i dispositivi che gli utenti intendono utilizzare devono essere dotati di un client VPN, che può anche essere:

  • un’applet nativa del sistema operativo del dispositivo;
  • un software o un estensione per il browser scaricabile dal sito del gestore di servizi VPN;
  • un agente software fornito insieme a un hardware che supporti la creazione di queste reti (router, firewall, NAS, etc);
  • un programma sviluppato da un vendor di sicurezza.

Tipi di VPN per topologia

Virtual Private Network è un modo di utilizzare le reti condivise e pubbliche globali per ampliare in modo controllato e protetto i confini di un major network aziendale privato, ma non significa un unico tipo di tecnologia e di implementazione.

Da un punto di vista delle topologie di VPN possiamo identificarne due tipi, spesso compresenti nella stessa azienda:

  • le VPN remote access, è la tipologia più semplice e comune e prevede esclusivamente la possibilità che alcuni utenti possano connettersi da remoto al major network dell’azienda.
  • le VPN site-to-site permettono di creare tunnel, attraverso reti pubbliche e condivise, fra siti aziendali diversi.

Questo tipo di VPN, dal punto di vista topologico, utilizza solitamente il modello hub-and-spokes. Il nome deriva dall’analogia con la ruota di una bicicletta. In questo caso l’hub (mozzo) è il major network aziendale, presso il quale si trova il server VPN. Gli spoke (raggi) sono le reti geografiche (MPLS o Internet) utilizzate per connettere al major network le sedi remote. Anche presso quest’ultime possono essere implementate soluzioni di Virtual Private Network che permettono l’accesso ai loro server da parte di utenti remoti o ulteriori branch che – a cascata – possono anche essere reinstradati verso il major network della sede centrale.

Tipologie di soluzioni per sicurezza, amministrazione e flessibilità

Oltre alle differenze topologie, esistono fra le Virtual Private Network anche diversità in funzione del livello di security e non solo. In particolare le VPN si suddividono in tre principali categorie: Trusted VPN, Secure VPN e Hybrid VPN.

Trusted VPN

Le Trusted VPN sono reti private virtuali in cui non è previsto un tunneling crittografato. Tradizionalmente appartengono a questa categoria le Virtual Private LAN create all’interno di un’azienda. I Virtual Private LAN Services si basano sul sul livello 2 (data link) del modello OSI e permettono di creare reti virtuali che condividono lo stesso network fisico ma i cui rispettivi host non possono sconfinare da una rete all’altra.

Come abbiamo già segnalato, le VPN non necessariamente utilizzano Internet come rete geografica: possono utilizzare anche le WAN MPLS. Questi fornitori sono in grado di offrire percorsi alle reti virtuali predefiniti, controllati, protetti e con una qualità del servizio (quality of service) garantite. Nel loro armamentario, quindi, ci sono le tecnologie utilizzate dal Trusted VPN.

Secure VPN

Il vantaggio principale delle Secure VPN è che i tunnel VPN sono creati utilizzando protocolli di cifratura e sicurezza quali IPsec, TSL/SSL, PPTP (Point to Point Tunneling Protocol) o SSH. Tali protocolli sono utilizzati da entrambi i nodi di una VPN. Di conseguenza, se un hacker riuscisse a intercettare i pacchetti di un traffico di rete, vi troverebbe dentro solo dati illeggibili. A differenza di una Trusted VPN, una Secure VPN consente di utilizzare Internet in modo estremamente flessibile: quello che conta è solo avere a disposizione delle connessioni, anche Wi-Fi pubbliche.

Hybrid VPN

Oggi sta emergendo il modello Hybrid VPN, che consente di coniugare i vantaggi delle Trusted VPN (come il controllo dei percorsi) e delle Secure VPN (la crittografia dei contenuti e dei tunnel). Molte Trusted VPN si stanno aggiornando con l’aggiunta di funzionalità Secure Virtual private network come security overlay sulle tecnologie già utilizzate.

VPN e sicurezza informatica

Sono molti i vantaggi delle VPN in termini di sicurezza. Innanzitutto, l’autenticazione degli utenti, che oggi può non avvenire solo con l’utilizzo di username e password, ma anche con smartcard, riconoscimento biometrico e altri metodi ancora.

Quindi la privacy dei dati. I principali protocolli utilizzati per creare VPN utilizzano algoritmi e protocolli crittografici molto robusti. E questo vale tanto per prodotti open source quali OpenVPN e SoftEther VPN, quanto per le tecnologie non a sorgente libero come SSTP, introdotto da Microsoft nel 2007, che sfrutta la tecnologia SSL 3.0, e IKEv2 , sviluppato da Microsoft e Cisco, che punta invece sulla tecnologia IPsec.

Dal punto di vista della sicurezza, va segnalato che il protocollo di tunneling MPPE è ormai da considerarsi obsoleto. Vi è poi il protocollo L2TP, che funziona a livello 2, non include un sistema di crittografia specifico, ma permette di creare tunnel che possono trasportare comunicazioni cifrate con diversi protocolli. Una sua evoluzione è L2TP/IPsec, in cui IPsec viene utilizzato per l’autenticazione. Un aspetto di security che va considerato, nel caso un’azienda optasse per servizi in cloud, è se il provider raccoglie o no informazioni sull’utilizzo dei servizi virtual private network, e che uso ne fa.

Come scegliere una Virtual Private Network

La scelta della soluzione giusta non può non richiedere un’attenta valutazione dei pro e dei contro dei diversi tipi di VPN, dei protocolli di sicurezza utilizzati e del fornitore della tecnologia o dei servizi gestiti.

Per creare Virtual private network con i metodi tradizionali, utilizzando i software più diffusi (e spesso nativi) e poco hardware, non si spende molto: l’importante è avere risorse competenti. Sul mercato ci sono anche ottimi fornitori di VPN as a service, utilizzati anche da molti utenti consumer, che offrono tariffe competitive che partono da pochi dollari al mese per utente, con molti gigabyte a disposizione e la possibilità di utilizzare più dispositivi contemporaneamente. Di certo salgono se si desidera implementare, on-premises o in cloud, soluzioni scalabili, affidabili, con funzionalità di amministrazione e sicurezza avanzate come la central client administration e il security policy enforcement.

Inoltre, va tenuto presente l’emergere delle VPN layer 3. Sempre più aziende desiderano connettere un numero crescente di siti e di relative LAN, al major network e fra di loro, in modalità virtual private network. Questo comporta un esplosione di indirizzi IP da gestire, moltissimi dei quali inevitabilmente identici. Diventa necessario quindi affrontare la situazione a livello di internetworiking, e quindi di livello 3 del modello OSI (network). I provider di servizi MPLS, grazie all’esperienza nella connettività site-to-site, sono avvantaggiati nel fornire soluzioni layer 3, che se sfruttano le proprie infrastrutture, sono chiamate MPLS Layer 3 VPN. Ma in molti casi anche le L2 sono e resteranno sufficienti.

Alcuni criteri per scegliere le VPN migliori

Per scegliere le VPN migliori è necessario basarsi sulle proprie reali esigenze, valutare le funzioni opzionali disponibili, tenendo presente che una buona opzione deve essere caratterizzata da riservatezza, sicurezza e dalla capacità di proteggere le informazioni. Può essere necessario rivolgersi a soluzioni premium.

Tra le funzioni da valutare la possibilità di fruire del servizio di split tunneling per accedere in modo trasparente a più domini di sicurezza; la garanzia che eventuali errori DNS siano risolti; la disponibilità del servizio kill switch che permette di mantenere sempre aperta la connessione virtual private network anche nel caso di interruzione di Internet.

Breve riepilogo dei protocolli utilizzati da virtual private network sicure

Ecco qui di seguito i protocolli più conosciuti che implementano una virtual private network sicura, esse solitamente utilizzano protocolli crittografici, anche se non sempre.

  • IPsec (IP security), comunemente usate su IPv4 (parte obbligatoria dell’IPv6);
  • PPTP (point-to-point tunneling protocol) di Microsoft;
  • SSL/TLS, utilizzate sia per il tunneling dell’intera rete sia per assicurarsi che sia essenzialmente un web proxy;
  • VPN Quarantine: la macchina del cliente terminale della VPN potrebbe essere una fonte di attacco, cosa che non dipende dal progetto della VPN;
  • MPVPN (Multi Path Virtual Private Network), è il trademark registrato da Ragula System Development Company.

Alcune reti VPN sicure non usano algoritmi di cifratura, in quanto partono dal presupposto che un singolo soggetto fidato possa gestire l’intera rete condivisa e che quindi l’impossibilità di accedere al traffico globale della rete renda i singoli canali sicuri, dato che il gestore della rete fornisce ad ogni soggetto solamente la sua VPN. I protocolli che si basano su questa filosofia sono per esempio:

  • L2F (layer 2 Forwarding), sviluppato da Cisco;
  • L2TP (Layer 2 Tunneling Protocol), sviluppato da Microsoft e Cisco;
  • L2TPv3 (layer 2 Tunneling Protocol version 3);
  • Multi Protocol Label Switching (MPLS), spesso usato per costruire una Trusted VPN.

Data breach, è cambiata la notifica.

Cambia la notifica di data breach: il Garante privacy ha infatti introdotto un nuovo modello ufficiale contenente le informazioni minime necessarie per notificare una violazione di dati personali. Ecco tutte le novità e i consigli per effettuarla al meglio

Cambia la notifica di data breach: con il provvedimento n. 157 del 30 luglio 2019 il Garante privacy ha infatti introdotto un nuovo modello ufficiale contenente le informazioni minime necessarie per effettuare una notifica di violazione dei dati personali ai sensi dell’art. 33 del Regolamento europeo in materia di protezione dei dati personali (GDPR).

In precedenza, il Garante aveva già introdotto modalità e requisiti specifici di notifica dei data breach in diversi settori e con il provvedimento in questione il Garante ha provveduto a razionalizzare ed uniformare i termini, i contenuti e le modalità della notifica.

Come cambia la notifica di data breach

Il GDPR prevede che in caso di violazione dei dati personali, il titolare del trattamento è tenuto a notificare tale evento al Garante senza ingiustificato ritardo e, ove possibile, entro 72 ore dal momento in cui ne è venuto a conoscenza, a meno che sia improbabile che la violazione dei dati personali presenti un rischio per i diritti e le libertà delle persone fisiche.

Allo stesso modo il responsabile del trattamento che viene a conoscenza di una eventuale violazione è tenuto a informare tempestivamente il titolare in modo che possa attivarsi (artt. 33 e 55 del GDPR, art. 2-bis del Codice Privacy).

A seguito del citato provvedimento 157 l’onerosità di tale notifica è decisamente aumentata, probabilmente anche al fine di permettere al titolare di assumere reale contezza della violazione e, conseguentemente, di valutare in maniera ponderata l’effettiva necessità di comunicare, o meno, la violazione stessa anche alle persone fisiche interessate, nel rispetto di quanto previsto dall’art. 34 del GDPR.

Vediamo quindi come cambia la notifica di data breach.

Per effettuare la notifica il titolare dovrà scaricare il modello disponibile sul sito del Garante e compilare le seguenti sezioni:

  1. Dati del soggetto che effettua la notifica, inserendo i dati anagrafici e di contatto del soggetto che materialmente effettua la notifica (ove nominato, si tratta del DPO del titolare);
  2. Dati relativi al titolare del trattamento, in cui andranno inseriti i dati identificativi del titolare (denominazione, C.F./P.IVA, indirizzo ecc.), i dati di contatto del soggetto da contattare per informazioni (ove nominato il DPO andrà indicato il relativo numero di protocollo assegnato dal Garante alla comunicazione dei dati di contatto tramite la procedura online disponibile sul sito) e i riferimenti di ulteriori soggetti coinvolti con indicazione del ruolo svolto (contitolare o responsabile del trattamento , rappresentante del titolare non stabilito nell’UE);
  3. Informazioni di sintesi sulla violazione, questa è una delle sezioni più critiche in quanto andranno indicate una serie di informazioni di dettaglio relative alla violazione, ivi incluse: la data esatta in cui si è verificata, il momento e le modalità in cui il titolare ne è venuto a conoscenza, i motivi del ritardo in caso di notifica oltre le 72 ore, la natura e la causa del data breach e le categorie di dati personali e soggetti interessati coinvolti, con indicazione dei relativi volumi;
  4. Informazioni di dettaglio sulla violazione, a completamento della sezione precedente, in questa andranno indicati i dettagli relativi alla violazione descrivendo nello specifico l’incidente alla base del breach, le categorie di dati violate, i sistemi e le infrastrutture informatiche coinvolte nell’incidente, con indicazione della loro ubicazione e le misure di sicurezza tecniche e organizzative adottate;
  5. Possibili conseguenze e gravità della violazione, si tratta di una sezione che richiede uno sforzo prognostico da parte del titolare il quale sarà tenuto a identificare i possibili impatti della violazione in base alla sua natura ed i potenziali effetti negativi per gli interessati; occorrerà inoltre effettuare una stima motivata della probabile gravità del data breach;
  6. Misure adottate a seguito della violazione, in cui andranno segnalate tutte le contromisure sia tecniche che organizzative adottate per limitare gli impatti del breach e di futura attuazione onde prevenire incidenti futuri;
  7. Comunicazione agli interessati, in questa sezione occorrerà specificare se la violazione è stata comunicata o meno agli interessati ai sensi dell’art. 34 del GDPR, ed in caso di mancata comunicazione sarà necessario motivare la ragione che ha spinto il titolare prendere una tale decisione;
  8. Altre informazioni, si tratta di una sezione di chiusura in cui inserire i dettagli circa l’impatto transfrontaliero del data breach e le eventuali segnalazioni già effettuate ad altre autorità.

Laddove il titolare del trattamento non sia in possesso di tutte le informazioni richieste dal modulo, potrà avviare il processo di notifica pur in assenza di un quadro completo della violazione con riserva di effettuare una successiva notifica integrativa.

Come inviare la notifica di data breach

Il modulo di notifica, una volta completato con le informazioni richieste, deve essere inviato al Garante tramite posta elettronica all’indirizzo protocollo@pec.gpdp.it e deve essere sottoscritto digitalmente (con firma elettronica qualificata/firma digitale) ovvero con firma autografa. In quest’ultimo caso la notifica deve essere presentata unitamente alla copia del documento d’identità del firmatario.

È opportuno ricordare che la notifica non deve includere i dati personali oggetto di violazione (ad esempio, non fornire i nomi dei soggetti interessati dalla violazione).

In ogni caso l’oggetto del messaggio deve contenere obbligatoriamente la dicitura “NOTIFICA VIOLAZIONE DATI PERSONALI” e opzionalmente la denominazione del titolare del trattamento.

I prossimi passi

Il nuovo modulo di notifica richiede al titolare di raccogliere una folta serie di informazioni relative alla violazione. Per essere in grado di effettuare la notifica il titolare dovrà pertanto assicurarsi di aver implementato le adeguate procedure organizzative – sia interne che esterne nei confronti dei responsabili – che gli consentano di ottenere in maniere tempestiva tutte le notizie necessarie per compilare effettuare la notifica.

Il procedimento di notifica deve essere supportato dalla tenuta, da parte dei titolari del trattamento, del cosiddetto “registro delle violazioni”: un documento che ha la duplice funzione di consentire, al titolare, un agevole monitoraggio e controllo di tutte le violazioni di dati personali avvenute nel corso delle proprie attività di trattamento e, al Garante Privacy, di verificare il rispetto dell’obbligo di notifica tempestiva.

Questo registro andrà predisposto in linea con i requisiti del modulo di notifica per raccogliere tutte le informazioni necessarie al fine di documentare adeguatamente qualsiasi violazione dei dati personali, comprese le circostanze a essa relative, le sue conseguenze e i provvedimenti adottati per porvi rimedio.

Lo scenario dei data breach in Europa e in Italia

Il provvedimento con cui il Garante privacy ha introdotto il nuovo modello di notifica di data breach è l’occasione giusta anche per ricordare quanto il fenomeno dei data breach sia in costante aumento in Europa.

Il Comitato Europeo per la protezione dei dati ha pubblicato un report sullo stato di implementazione del GDPR a 9 mesi dalla sua piena applicabilità, in cui si rileva che le autorità Garanti in Europa hanno registrato circa 64.684 notifiche di data breach, ed è ragionevole ritenere che dalla pubblicazione del report ad oggi tale cifra sia cresciuta ulteriormente.

In tal senso è significativo quanto espresso dal World Economic Forum, secondo cui gli attacchi informatici sono la maggiore minaccia per le imprese che operano in Europa.

Durante gli ultimi anni il nostro continente è stato difatti teatro di una lunga serie di grandi attacchi cyber, il cui numero è aumentato di circa un terzo nel primo trimestre 2018, rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso.

Tali stime trovano conferma nel rapporto presentato dalla Agenzia dell’Unione europea per la sicurezza delle reti e dell’informazione (ENISA) secondo cui, a fronte di un aumento moderatamente significativo del numero di attacchi, si è registrato un incremento esponenziale della efficacia e pericolosità degli stessi.

Nella prima metà del 2018 sono stati compromessi, infatti, circa 4.500 milioni di record a causa delle violazioni di dati, in forte crescita rispetto al 2017 in cui, nello stesso periodo, erano stati registrati «solo» 2,7 milioni di record violati.

Autorizzazione videosorveglianza

L’istanza di autorizzazione per la videosorveglianza permette di installare le telecamere di sicurezza rispettando le norme di legge previste.

Sempre più spesso privati e aziende sentono il bisogno di dotarsi di sistemi di videosorveglianza per aumentare il grado di sicurezza dell’ambiente domestico o di quello lavorativo, ma devono fare i conti con alcune attenzioni necessarie per il rispetto della privacy.

Così come molte altre informazioni (nome e cognome, residenza, codice fiscale, numero di telefono, ecc), anche le immagini sono a tutti gli effetti dei dati personali e, come tali, sono soggette alla normativa della privacy: in questo articolo ecco alcuni aspetti da tenere in considerazione.

Autorizzazione per videosorveglianza privata

Chi vuole installare telecamere di sorveglianza nella propria casa è soggetto a molte meno restrizioni rispetto all’ambiente lavorativo, a patto di rispettare alcune indicazioni.

Secondo quanto stabilito dal Garante della Privacy, con il parere n. drep/ac/113990 del 7 marzo 2017, per la videosorveglianza privata non è previsto l’obbligo di autorizzazioni (né da parte della Polizia, né da parte, eventualmente, del condominio).

Ci sono, tuttavia, alcune condizioni da rispettare, che valgono indistintamente per le telecamere con o senza registrazione delle immagini:

 – evitare di riprendere zone di pubblico passaggio (strada o spazi comuni)
 – qualora ciò non fosse possibile, evitare il riconoscimento dei soggetti (limitando il raggio di ripresa alle sole scarpe)

In sostanza, è possibile fare a meno dell’autorizzazione per videosorveglianza quando le telecamere non sono rivolte su zone pubbliche (compresi gli spazi comuni di un condominio, dove passano i vicini). Fondamentale, inoltre, che le immagini riprese non vengano diffuse a terzi.

Nel caso in cui queste condizioni non dovessero essere rispettate, la videosorveglianza non avrebbe più i caratteri di finalità esclusivamente personali: scatterebbero, dunque, tutti gli obblighi previsti dal codice della privacy, con tanto di richiesta di autorizzazione obbligatoria.

Autorizzazione per videosorveglianza sul luogo di lavoro

L’autorizzazione per videosorveglianza sul luogo di lavoro è sempre obbligatoria per aziende e attività commerciali e, secondo quanto stabilito all’art. 4 della Legge 300 del 1970 (Statuto dei Lavoratori), impianti audiovisivi e altri strumenti, dai quali deriva la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, possono essere impiegati esclusivamente per:

 – esigenze organizzative e produttive
 – la sicurezza del lavoro
 – tutela del patrimonio aziendale.

Recentemente l’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori ha subìto rilevanti modifiche, ad opera del Jobs Act (art. 23 del D.Lgs. n. 151/2015) prima e del D.Lgs. n. 185/2016 (art. 5, comma 2) dopo, adeguando così l’impianto normativo e le procedure preesistenti alle più recenti innovazioni tecnologiche.

A tal proposito, l’Ispettorato Nazionale del Lavoro, con la circolare n.5 del 19 febbraio 2018, ha fornito alcune indicazioni operative sull’installazione e utilizzo degli impianti di videosorveglianza e degli altri strumenti di controllo. Tra le novità principali, il fatto che il focus delle istruttorie debba riguardare più le finalità e le motivazioni per cui si richiede l’autorizzazione che non una descrizione tecnica della strumentazione.

Anche sul luogo di lavoro, in ogni caso, andrà posta particolare attenzione al posizionamento delle telecamere: la legge prevede che non possano essere inquadrate postazioni di lavoro fisse o aree dedicate all’attività lavorativa.

In sostanza, le immagini non devono focalizzarsi sui dipendenti, che possono però essere ripresi con criteri di occasionalità. Per il resto, le telecamere possono essere orientate anche su ingressi o zone di passaggio di pertinenza dell’azienda (ad esempio i corridoi, parcheggi, ecc).

Prima di poter installare un impianto di videosorveglianza sul luogo di lavoro, dunque, è necessario avere uno specifico accordo con le organizzazioni sindacali (se presenti in azienda) o, appunto, l’autorizzazione rilasciata dall’Ispettorato Territoriale del Lavoro, previa apposita istanza, in marca da bollo.

Videosorveglianza senza autorizzazione: sanzioni

Installare sistemi di videosorveglianza senza autorizzazione può costare alle imprese un esborso economico considerevole e/o, nei casi più gravi, anche dei provvedimenti di tipo penale (come da sentenza della Cassazione n. 4331 del 30 gennaio 2014).

Le sanzioni prevedono come minimo multe da 154,00 a 1.549,00 euro o l’arresto da 15 giorni a un anno (salvo che il fatto non costituisca reato), ma in alcuni casi possono essere anche superiori a tali importi.

Possono scattare le sanzioni, inoltre, anche qualora vengano installate telecamere finte non autorizzate, al solo scopo dissuasivo.

Vuoi sapere cosa fare per ottenere l’autorizzazione per la videosorveglianza della tua azienda? Scopri il nostro servizio di consulenza sulla privacy e richiedi oggi stesso il nostro supporto!

GDPR: da fine maggio le sanzioni

Verso il primo anno dall’entrata in vigore del Regolamento Privacy 679/2016: in vista ispezioni e sanzioni in caso di violazioni relative a GDPR.

Recentemente, il Garante della protezione dei dati personali ha definito il regolamento europeo come “la prima e più importante risposta che il diritto abbia espresso nei confronti della rivoluzione digitale”.

La nuova normativa ha avuto un impatto positivo nella sensibilità dei cittadini. Infatti, secondo i dati pubblicati dall’Autorità Garante nel bilancio relativo al primo anno dall’entrata in vigore del GDPR.

Al 31 marzo scorso sono stati registrati 7.219 reclami, in costante aumento dal 2018, e ben 946 notifiche di data breach, di cui 641 solo negli ultimi sei mesi, a questi dati si aggiungono il numero dei contatti con l’Ufficio relazioni del Garante, quasi 10.000 e le comunicazioni dei dati di contatto dei Responsabili Protezione Dati quasi 50.000.

GDPR: controlli Privacy e GdF nelle imprese, la novità adesso è data dalla dall’immediatezza della scadenza del periodo di tolleranza per le inadempienze previsto dall’art. 22 del Decreto legislativo 10 agosto 2018, n. 101, dal 20 maggio il Garante potrà applicare senza alleggerimenti le sanzioni previste dal GDPR per l’inosservanza al corretto trattamento dei dati.

Al termine del periodo di tolleranza prenderanno il via le ispezioni in collaborazione con la Guardia di Finanza.

In ambito privato destinatari delle ispezioni saranno i grandi istituti di credito, chi esegue attività di profilazione con sistemi di fidelizzazione su larga scala e chi tratta i dati sulla salute. In ambito pubblico, si porrà l’attenzione sul funzionamento di SPID (Sistema Pubblico di Identità Digitale) e sulle grandi banche dati.

In presenza di una violazione si possono avere varie conseguenze:

  • l’autorità di controllo può imporre al titolare delle misure procedurali o tecniche di natura correttiva, da attuare nell’immediatezza, compreso il potere di limitare, sospendere o addirittura bloccare i trattamenti;
  • se la violazione comporta danni agli interessati, il titolare, insieme al responsabile del trattamento, dovrà provvedere al risarcimento dei danni, materiali e morali;
  • la violazione può portare a danni reputazionali a carico del titolare  con gravi conseguenze sull’attività dell’azienda;
  • la violazione può comportare responsabilità per mancato rispetto delle pattuizioni contrattuali con altri titolari o contitolari;
  • la violazione può portare all’applicazione di sanzioni amministrative da parte dell’autorità di controllo;
  • la violazione può portare all’applicazione di eventuali sanzioni penali.

Il regolamento europeo distingue due gruppi di violazioni.

Nel primo caso le sanzioni possono arrivare fino a 10 milioni di euro oppure al 2% del fatturato mondiale annuo della società se superiore, e riguardano:

  • inosservanza degli obblighi del titolare e del responsabile del trattamento a norma degli articoli 8, 11, da 25 a 39, 42 e 43;
  • inosservanza degli obblighi dell’organismo di certificazione a norma degli articoli 42 e 43;
  • inosservanza degli obblighi dell’organismo di controllo a norma dell’articolo 41, paragrafo 4.

Un secondo gruppo di violazioni, per il quale sono previste sanzioni fino 20 milioni di euro o fino al 4% del fatturato mondiale totale annuo dell’esercizio precedente, se superiore. Riguardano:

  • inosservanza dei principi di base del trattamento, comprese le condizioni relative al consenso, a norma degli articoli 5, 6, 7 e 9;
  • inosservanza dei diritti degli interessati a norma degli articoli da 12 a 22;
  • inosservanza dei trasferimenti di dati personali a un destinatario in un paese terzo o un’organizzazione internazionale a norma degli articoli da 44 a 49;
  • inosservanza di qualsiasi obbligo ai sensi delle legislazioni degli Stati membri adottate a norma del capo IX;
  • inosservanza di un ordine, di una limitazione provvisoria o definitiva di trattamento o di un ordine di sospensione dei flussi di dati dell’autorità di controllo ai sensi dell’articolo 58, paragrafo 2, o il negato accesso in violazione dell’articolo 58, paragrafo 1.

In ogni caso le sanzioni devono essere considerate un’arma dissuasiva, non certo una punizione le sanzioni saranno, quindi, proporzionate anche all’azienda, in modo da non costringerla a chiudere l’attività.

L’autorità di controllo ha il potere di irrogare sanzioni correttive.

Essi consistono nel:

  • rivolgere avvertimenti al titolare o al responsabile del trattamento sul fatto che i trattamenti previsti possono violare le norme;
  • rivolgere ammonimenti al titolare o al responsabile del trattamento ove i trattamenti abbiano violato le norme;
  • ingiungere al titolare o al responsabile del trattamento di soddisfare le richieste dell’interessato di esercitare i relativi diritti;
  • ingiungere al titolare o al responsabile del trattamento di conformare i trattamenti alle norme, specificando eventualmente le modalità e i termini per la conformità;
  • imporre una limitazione provvisoria o definitiva al trattamento, sospendere temporaneamente il trattamento, o vietare del tutto;
  • ordinare la rettifica, la cancellazione o l’aggiornamento dei dati personali;
  • revocare le certificazioni o ingiungere all’organismo di certificazione di ritirare le certificazioni rilasciate se i requisiti non sono soddisfatti;
  • infliggere le sanzioni amministrative pecuniarie;
  • ordinare la sospensione dei flussi di dati verso un destinatario in un paese terzo o un’organizzazione internazionale.

Il timore dell’erogazione della sanzione non deve ritenersi l’unico fattore che dovrebbe condurre il titolare al rispetto delle disposizioni in materia, ma è opportuno che egli comprenda il nuovo approccio contenuto nel GDPR. Il titolare deve dimostrare, infatti, la sostanza degli adempimenti e non rispettarli formalmente come accadeva in passato. L’adempimento delle richieste normative deve così essere dimostrato e non meramente eseguito.

Secondo una ricerca pubblicata a febbraio 2019 dall’Information Security & Privacy della School of Management del Politecnico di Milano solo il 23% delle imprese italiane si è adeguata al GDPR, la nuova normativa Ue sulla privacy in vigore da fine maggio 2018, il 59% ha progetti in corso, l’88% ha un budget dedicato.

Nel workshop organizzato da PrivacyLab a metà aprile 2019 sono numerosi i siti istituzionali ancora senza informativa privacy aggiornata, uno studio di Federprivacy evidenzia fenomeno più grave ed esteso: il 47% dei siti web dei comuni italiani utilizza protocolli non sicuri, e il 36% non rende noti i recapiti per contattare il DPO, figura obbligatoria per tutte le pubbliche amministrazioni.

Online navigare sicuri

Online navigare in sicurezza? Ecco come fare con i browser più sicuri.

La Techwarn, per i nostri lettori ha messo a disposizione questo interessante articolo.

Tutti noi accediamo ad internet almeno una volta al giorno. E non ci rendiamo nemmeno conto di quanti dati lasciamo in giro sul web, non solo attraverso messaggi, mail e social, ma anche semplicemente con la navigazione e l’apertura di siti web.

Lo strumento conosciuto a tutti e che usiamo maggiormente per navigare online è il browser, un software che ci permette di impostare un motore di ricerca, cercare direttamente siti web e salvare i preferiti, tra le varie cose.

Come ben sappiamo però non tutti i browser sono uguali e non tutti ci garantiscono gli stessi servizi e le stesse caratteristiche. Se i più usati sono sicuramente Chrome di Google, Safari per i sistemi iOS e Mozilla Firefox, esistono altri browser che ci permettono di navigare online in completa sicurezza e migliorando di molto la nostra privacy.

Certo, da una parte abbiamo la certezza che tutto sia compatibile, di poter avere le migliori estensioni e di poter sincronizzare diversi dispositivi, dall’altra abbiamo la possibilità di migliorare la nostra sicurezza online.

Nonostante i continui miglioramenti da parte dei browser più famosi, c’è ancora molto da fare in questo ambito, ecco perché esistono delle alternative valide e a costo zero. Andiamo dunque a vedere quali sono browser alternativi e più sicuri.

TOR

Sicuramente uno dei browser più attenti alla privacy e alla sicurezza dell’utente. Questo software infatti garantisce una crittografia totale della rete mentre navighiamo, inoltre protegge i nostri dati personali e ci rende anonimi anche mentre comunichiamo.

È disponibile in download gratuito per Windows, Mac e anche Linux e si tratta di un’applicazione open source.

OPERA
Opera è sicuramente più conosciuto di Tor e in molti casi si trova anche già preinstallato su alcuni dispositivi, soprattutto PC (mentre nei dispositivi mobili è presente la versione mini). Con questo browser, oltre ad essere molto veloce, avrete a disposizione un blocco annunci, il blocco del tracciamento della posizione, l’anonimato e una VPN integrata. Che cos’è una VPN? È un tunnel virtuale ultra sicuro in cui connettervi e tenere lontano possibili infiltrazioni di virus e malware vari.

EPIC BROWSER

Invece questo browser, al contrario di Opera, è dedicato interamente ai sistemi iOS, dunque ai Mac. Anche in questo caso, il browser non salva i dati della cronologia, non ha perdite DNS; non consente i coolie di terze parti e tutti i dati vengono eliminati immediatamente al momento della chiusura del browser.

Questi browser sono tutti completamente gratuiti e – come molti altri browser non famosi quanto la triade Chrome, Safari e Firefox – consentono all’utente di proteggersi da alcune insidie del web a cui siamo esposti molto facilmente ogni volta che ci colleghiamo ad internet.

Articolo di Stefania Grosso di Techwarn

Compilance, ottemperare al G.D.P.R.

La nostra suluzione per la compilance G.D.P.R.

Ottemperare correttamente alle disposizioni ed essere compliant al GDPR, le aziende devono definire un percorso di adeguamento e poter dimostrare le azioni implementate e quelle ancora da fare, opportunamente inserite all’interno di un piano d’azione. Il percorso di adeguamento consigliato è articolato in 7 step, vediamoli nel dettaglio.

Il regolamento generale sulla protezione dei dati personali UE 2016/679 (GDPR), già in vigore ma pienamente applicabile dal 25 maggio 2018, ha introdotto un vero e proprio cambio di filosofia attraverso il superamento di un approccio marcatamente formalistico, basato su regole e adempimenti analiticamente definiti (per esempio elenco delle misure minime di sicurezza da adottare) e la definizione di un sistema articolato di governance dei dati personali.

Il “nuovo” sistema si basa su un’alta responsabilizzazione sostanziale (accountability) del Data Controller (Titolare del Trattamento), che deve garantire ed essere in grado di dimostrare la compliance al GDPR dei trattamenti di dati personali effettuati, e richiede la definizione di un vero e proprio modello di funzionamento della Data Protection.

In questo contesto, è fondamentale per ciascuna delle organizzazioni che deve adeguarsi definire un percorso strutturato e sostenibile per essere GDPR compliant entro maggio 2018 e, allo stesso tempo, essere in grado di dimostrare sia le azioni implementate, e le relative motivazioni, sia le azioni ancora da implementare, opportunamente inserite all’interno di un piano d’azione. Il percorso di adeguamento al regolamento europeo sulla privacy consigliato è articolato in 7 step:

  1. identificazione, comprensione e classificazione dei requisiti del GDPR in funzione degli assi del modello di funzionamento, mettendo in evidenza eventuali legami con normative settoriali (es. settore bancario – circolare n.285 del 17 dicembre 2013) e tenendo costantemente monitorata l’emanazione di nuove disposizioni e linee guida delle competenti Autorità nazionali ed europee;
  2. individuazione e ingaggio di tutti gli attori, sia interni sia esterni, chiamati a ricoprire un ruolo «attivo» in fase di pianificazione, esecuzione e monitoraggio di tale percorso, ma anche nella gestione del modello di funzionamento a regime (potrebbe essere importante coinvolgere, per esempio, le funzioni Legale, Organizzazione e Risorse Umane, Sistemi Informativi, Sicurezza e Compliance);
  3. analisi delle attuali modalità di gestione della Data Protection in relazione ai requisiti del GDPR e individuazione del livello di maturità dell’organizzazione in materia di protezione dei dati personali, evidenziando gli assi del modello per i quali sono già state implementate delle azioni GDPR compliant, almeno in parte (per esempio nomina di responsabili esterni del trattamento, adozione di procedure per la gestione dei diritti degli interessati);
  4. mappatura preliminare dei trattamenti e creazione del registro dei trattamenti (vedi articolo 30 del GDPR), con riferimento al duplice ruolo di titolare e responsabile del trattamento potenzialmente ricopribile dall’organizzazione, e identificazione del livello di rischio associato al singolo trattamento, da legare a variabili quali le categorie di dati trattati e di interessati coinvolti, l’utilizzo di sistemi automatizzati e il trasferimento di dati extra UE;
  5. identificazione e classificazione dei gap da colmare per essere GDPR compliance, sia a livello di modello di funzionamento della Data Protection sia a livello di singoli trattamenti censiti all’interno dei registri dei trattamenti, per i quali è necessario valutare attentamente i rischi di non conformità (sanzioni, perdite finanziarie rilevanti o danni reputazionali);
  6. definizione del piano di adeguamento complessivo (Action Plan), comprensivo di un elenco di azioni finalizzate a colmare i gap evidenziati da chi deve adeguarsi, organizzate in funzione di cantieri e sotto-cantieri di lavoro facilmente riconducibili ai requisiti del regolamento (es. cantiere “Legale” e sotto-cantieri “Diritti degli interessati”, “Informative e consensi”, “Fornitori e contratti”), ai quali è necessario attribuire un accountability univoca e condivisa tra i vari attori coinvolti nel percorso;
  7. implementazione del piano di adeguamento al GDPR precedentemente definito che, a titolo esemplificativo e non esaustivo, includerà: introduzione della figura del Data Protection Officer; stesura o aggiornamento di informative, consensi e lettere di nomina; predisposizione o aggiornamento di procedure (es. gestione dei diritti degli interessati), progettazione ed erogazione di iniziative volte sensibilizzare e formare dipendenti e collaboratori; revisione delle misure di sicurezza per la protezione dei dati personali

Per la buona riuscita del percorso, inoltre, occorre non sottovalutare la necessità di assicurare il coordinamento complessivo dello stesso attraverso: l’introduzione di un PMO (Program Management Officer); la realizzazione di allineamenti periodici, sia di natura operativa sia di natura strategica (Steering Committee); la raccolta, condivisione e archiviazione della documentazione prodotta all’interno di un unico repository.

Per concludere, è importante sottolineare che nell’ottica dell’accountability il percorso progettuale di adeguamento al GDPR costituisce già un elemento importante per la valutazione della compliance. È importante che tutte le decisioni rilevanti siano opportunamente documentate e consentano di ricostruire l’iter seguito. Andranno documentate, a titolo puramente esemplificativo, le decisioni di dotarsi o meno di un Data Protection Officer, le valutazioni circa l’adeguatezza delle misure di sicurezza adottate, le scelte di effettuare o meno una valutazione di impatto su un trattamento di dati personali.

Articolo preso da zerounoweb

Obbligo formazione, col Gdpr.

Obbligo della formazione per il nuovo regolamento privacy, il GDPR introduce l’obbligo della formazione a tutti i livelli, all’interno di società e P.A. Chi non si adegua rischia grosse sanzioni. Vediamo impatti, soluzioni e opportunità.

Il Regolamento privacy europeo 679/16 (Gdpr) prevede l’obbligo della formazione per le pubbliche amministrazioni ed imprese in materia di protezione dei dati personali per tutte le figure presenti nell’organizzazione (sia dipendenti che collaboratori).

La base normativa

Si tratta di una novità rilevante in quanto il decreto legge 9 febbraio 2012, n. 5, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 aprile 2012, n. 35. aveva abrogato nel 2012 l’obbligo di formazione previsto al punto 19.6 del Disciplinare tecnico in materia di misure minime (allegato B al D.Lgs, 196 del 2004 “Codice della privacy) che prevedeva: “interventi formativi degli incaricati del trattamento, per renderli edotti dei rischi che incombono sui dati, delle misure disponibili per prevenire eventi dannosi, dei profili della disciplina sulla protezione dei dati personali più rilevanti in rapporto alle relative attività, delle responsabilità che ne derivano e delle modalità per aggiornarsi sulle misure minime adottate dal titolare”.

La formazione privacy restava e resta obbligatoria nel settore sanitario v. art. 83 del Codice della Privacy che prevede l’obbligo delle strutture di attivare “ la messa in atto di procedure, anche di formazione del personale, dirette a prevenire nei confronti di estranei un’esplicita correlazione tra l’interessato e reparti o strutture, indicativa dell’esistenza di un particolare stato di salute” e di prevedere “la sottoposizione degli incaricati che non sono tenuti per legge al segreto professionale a regole di condotta analoghe al segreto professionale.

L’art. 29 del sopra citato regolamento prevede, infatti, che “il responsabile del trattamento, o chiunque agisca sotto la sua autorità o sotto quella del titolare del trattamento, che abbia accesso ai dati personali non può trattare tali dati se non è istruito in tal senso dal titolare ”.

Il Gruppo di lavoro ex 29 nel parere n. 3/2010 aveva individuato tra le misure comuni concernenti la responsabilità “un’adeguata formazione ed istruzione del personale in materia di protezione dei dati. Il personale in questione dovrebbe includere gli incaricati (o responsabili) del trattamento dei dati personali, ma anche dirigenti e sviluppatori in campo informatico e direttori di unità commerciali”.

La centralità della formazione è confermata anche dall’art. 32 “Sicurezza del trattamento” paragrafo 4 che prevede che “il titolare del trattamento ed il responsabile del trattamento fanno sì che chiunque agisca sotto la loro autorità e abbia accesso a dati personali non tratti tali dati se non è istruito in tal senso dal titolare del trattamento, salvo che lo richieda il diritto dell’Unione o degli Stati membri”.

Come sarà la formazione

La formazione costituisce, pertanto, un prerequisito per potere operare all’interno delle organizzazioni, imprese e pubbliche amministrazioni.  Essa dovrebbe, alla luce dell’impianto del Regolamento, presentare un taglio interdisciplinare (con sessioni sia informatiche sia giuridiche sia sui profili organizzativi dell’Ente o Società) e pragmatico (come si evince dal termine “istruito” previsto all’art 29 e 32 del Regolamento) e riguardare tutti i soggetti.

La formazione dovrebbe essere finalizzata ad illustrare i rischi generali e specifici dei trattamenti di dati, le misure organizzative, tecniche ed informatiche adottate, nonché le responsabilità e le sanzioni.

L’obbligo formativo non deve essere in alcun modo sottovalutato da parte delle pubbliche amministrazioni e delle imprese: nel caso di mancata erogazione della formazione scatta, infatti, ai sensi dell’art. 83 par 4 del Regolamento privacy europeo, la rilevante sanzione amministrativa pecuniaria fino a 10 milioni di euro o, per le imprese, fino a 2 % del fatturato mondiale annuo dell’anno precedente se superiore.

L’adempimento degli obblighi formativi è sovente oggetto anche di accertamenti ispettivi da parte dell’Autorità Garante privacy e da parte della Guardia di Finanza che ha rinnovato nel 2016 il protocollo di intesa con l’Autorità.

Il Garante, in diversi casi, in sede ispettiva ha richiesto, infatti, di acquisire il programma ed il piano di formazione, le dispense, i materiali erogati, il test finale ed ha analizzato il profilo delle istruzioni agli incaricati al trattamento connesse all’accesso, alla consultazione delle banche dati, i livelli di autorizzazione e policy aziendali (ad esempio in materia di password aziendali e di videosorveglianza).

La formazione costituisce, pertanto, una misura di sicurezza per le organizzazioni, un onere a carico del titolare, un diritto e dovere per i dipendenti e i collaboratori.

Che devono fare PA e aziende

Gli Enti pubblici le imprese, pertanto, devono:

– pianificare quanto prima un percorso ed un piano di formazione;

– accantonare adeguate risorse in sede di approvazione di bilancio, al fine di arrivare preparati alla scadenza del 25 maggio 2018, data in cui il Regolamento, già in vigore, esplicherà i suoi effetti;

– prevedere prove finali nel percorso formativo, e sessioni di aggiornamento alla luce delle modifiche normative, organizzative e tecniche;

– individuare un percorso formativo alternativo, in caso di mancato superamento del test finale, ed un nuovo esame di verifica;

Nella progettazione dei corsi di formazione, occorre esaminare ed individuare: i fabbisogni formativi, la struttura dell’Ente o dell’impresa, i profili organizzativi, il target, i prerequisiti, le finalità generali e specifiche di ciascuna sessione formativa nonché le relative modalità di erogazione (in aula o a distanza) ed i precedenti corsi predisposti in materia.

Occorrerebbe, inoltre, stabilire aree di priorità di intervento, a titolo esemplificativo ma non esaustivo le figure apicali, gli amministratori di sistema, i nuovi assunti ed infine le persone autorizzate al trattamento.

Queste ultime, corrispondono agli ex incaricati del codice privacy e sono, sostanzialmente, tutti coloro che trattano dati personali. Essi dovranno essere appositamente nominati mediante una lettera di designazione contenete le istruzioni sui trattamenti che dovranno svolgere.

Nelle previsioni di budget è necessario considerare anche risorse specifiche per la formazione de Data protection Officer e dei componenti del team.

Il data protection officer, figura obbligatoria nelle pubbliche amministrazioni e organo di presidio e di controllo deve anch’esso, ai sensi dell’art. 39 del regolamento, occuparsi della “formazione del personale che partecipa ai trattamenti ed alle connesse attività di controllo”.

La previsione di tale compito a carico del DPO costituisce un ulteriore elemento di garanzia della centralità e dell’effettività della formazione che potrà nella logica del regolamento anche essere oggetto di specifici audit.

La formazione costituisce essa stessa una misura essenziale al fine di garantire un livello di sicurezza adeguato a garanzia del Titolare del trattamento, la pietra angolare del trattamento e sul quale ricade ogni responsabilità.

La previsione di eventi formativi diretti al personale e ai collaboratori concretizza il principio di “accountability” ossia di responsabilizzazione del Titolare del trattamento, previsto dal Regolamento europeo n. 679/16.

Ed invero, il titolare deve dimostrare che il trattamento dei dati sia lecito, corretto, trasparente, pertinente, adeguato, legittimo e che vengano, inoltre, rispettati i principi di minimizzazione, di conservazione dei dati e siano previste misure di sicurezza adeguate.

I dipendenti e i collaboratori potranno, infatti, trattare i dati solo se autorizzati ed entro i limiti delle istruzioni impartite dal titolare, il quale potrà comunque avvalersi come intermediario di altro soggetto debitamente autorizzato.

Il programma ed il piano formativo costituiscono, pertanto, dei tasselli rilevanti del cd sistema di gestione privacy in grado di concretizzare il principio di accountability inteso come capacità di dimostrare di avere adottato misure di sicurezza adeguate.

Si suggerisce, per tale ragione, di pubblicare il piano ed i relativi materiali formativi nella sezione intranet aziendale al fine di costituire un presidio di informazione e aggiornamento a beneficio di tutta l’organizzazione e di inserire i sopra citati atti come allegati al registro del trattamento.

In ambito pubblico la formazione sulla protezione dei dati non potrà non integrarsi con la digitalizzazione dei processi, con la riforma del Codice di Amministrazione digitale, con i codici di comportamento degli enti e con le ultime recenti novità normative in materia di trasparenza, prevenzione della corruzione, Foia e whistleblowing.

Nell’ottica di un miglioramento continuo e di una gestione in qualità del sistema privacy, sarebbe consigliabile, come alcuni enti stanno progettando, prevedere sessioni informative on line per sensibilizzare anche gli utenti sul valore della protezione dei dati personali, come diritto collettivo e sull’utilizzo consapevole e responsabile di Internet.

La formazione non deve essere considerata, pertanto, un mero adempimento burocratico ma come un’opportunità per rendere consapevoli gli operatori dei rischi connessi al trattamento dei dati, delle misure di sicurezza, per migliorare i processi organizzativi e i servizi erogati, evitare danni reputazionali, ridurre i rischi di sanzioni amministrative e rendere più competitiva l’organizzazione.