Dominio, Riassegnazione Nomi

Dominio e la riassegnazione dei nomi, una Procedura che nasce per contrastare il fenomeno del Cybersquatting (accaparramento di nomi a dominio). 
Chi ritiene di aver diritto all’uso di un nome a dominio registrato da altri in malafede, può attivare una procedura per la riassegnazione del dominio in modo semplice, efficace ed economico.

Camera Arbitrale di Milano fornisce un servizio di riassegnazione dei nomi a dominio per l’estensione geografica .IT in quanto accreditata dal Registro del Country Code Top Level Domain .it (Registro del ccTLD “it”).
Per le contestazioni riguardanti nomi a dominio aventi altre estensioni (per esempio .com) consulta il database dell’Organizzazione Mondiale Proprietà Intellettuale (OMPI-WIPO).

Scopri chi può attivare la procedura e per quali tipi di controversie.

La MBLI S.a.s. ha trovato per voi questo splendito articolo scritto da Luca Giacopuzzi (avv. del Foro di Verona), che spiega abbastanza semplicemente il fenome dell’accaparramento dei domini.


Articolo Integrale
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Una parte, coinvolta in un conflitto che ha per oggetto un nome a dominio, ha diverse soluzioni per comporre la lite. La prima, quella più “familiare” ad un giurista, è l’instaurazione di un procedimento giudiziale ordinario. Ma questa, forse, non è l’opzione migliore tra le diverse possibilità che si hanno a disposizione.

Da una lettura complessiva delle decisioni italiane, infatti, si ha la sensazione di trovarsi di fronte ad una giurisprudenza “ondivaga”, di talchè, pur a fronte di identiche situazioni, possono in certi casi ottenersi giudizi discordanti.

Ed allora un soggetto che desideri promuovere una vertenza su un nome a dominio può “guardarsi attorno”, ossia può non rivolgere lo sguardo unicamente verso il Tribunale, perché ci sono dei metodi di risoluzione delle controversie alternativi rispetto alla composizione giudiziale delle liti. Essi sono essenzialmente due: il giudizio arbitrale e la procedura di riassegnazione.

Non mi soffermo sul primo, che – rilevo per inciso – nella realtà concreta dei fatti si è rivelato uno strumento assolutamente insoddisfacente e vado invece ad analizzare la procedura di riassegnazione, la quale è una procedura molto snella e rapida, che – a circa 2 anni dalla sua entrata in vigore – si è messa in luce quale rimedio davvero efficace per combattere il fenomeno del domain grabbing.

Essa ha come scopo esclusivo la verifica del titolo all’uso od alla disponibilità del nome a dominio e l’indagine sulla malafede del registrante: ogni altro tipo di accertamento dovrà essere devoluto ad un giudice od ad un arbitro.

Si tratta, pertanto, di un procedimento speciale col quale si può ottenere solo un provvedimento specifico: la rassegnazione del DN.

La PDR viene gestita da apposite organizzazioni denominate “enti conduttori”, al cui interno operano alcuni professionisti – denominati, con termine piuttosto infelice, Saggi – che materialmente si fanno carico della decisione.

Attualmente gli enti conduttori sono 10 (l’elenco è localizzato in rete a questo URL: http://www.nic.it/NA/maps ), ma va detto che alcuni di essi non hanno ricevuto alcun incarico. In realtà, a voler tracciare un quadro obiettivo della situazione, si deve rilevare che la quasi totalità delle decisioni sono state affidate a 2 solamente: uno che ha sede a Roma, l’altro a Milano. Il primo è CRDD (ex E-Solv), il secondo si chiama Arbitronline.

Per poter chiedere la riassegnazione devono sussistere alcuni presupposti.

Anzitutto, il dominio che si assume essere stato registrato in malafede deve venire “contestato” nei confronti della Registration Authority. E’questo, infatti, il primo “step” che viene imposto a chi voglia intraprendere una PDR. Si tratta, per il vero, di un’azione preliminare molto semplice, che è compiutamente disciplinata dall’art. 14 Reg. Naming. Contestare, in buona sostanza, significa inviare una lettera. Ebbene sì: la contestazione del nome a dominio, infatti, consiste nell’invio di una lettera raccomandata A.R. – debitamente motivata – che il soggetto che assume aver ricevuto pregiudizio dall’assegnazione a terzi di un particolare dominio deve far pervenire alla RA.

La quale, ricevuta la lettera di contestazione, si limita ad aggiungere la annotazione “valore contestato/challenged value” nel RNA; tutto qui, non altro. Ciò però, a ben guardare, comporta conseguenze pratiche di non poco conto, poiché pone seri limiti alla circolazione del dominio, che non sarà più liberamente trasferibile a terzi da parte dell’assegnatario.

Come si ricorderà, per il diritto romano la res litigiosa veniva dichiarata fuori commercio; qualcosa di simile accade nel nostro caso, perché, per effetto della contestazione, il dominio contestato diventa trasferibile unicamente al soggetto che ha posto la contestazione stessa.

Una volta formalizzata la contestazione del DN, entro 6 mesi dovrà essere promossa la procedura di riassegnazione, che – come detto – può portare al trasferimento del nome a dominio che ne è oggetto. Trasferimento – si badi – che verrà disposto solo se venga fornita idonea prova della sussistenza di tutti e tre i presupposti di cui all’art. 16.6 delle Regole di Naming.

Deve, in altre parole, essere dimostrato che:

a) il nome a dominio è identico o tale da indurre confusione con un marchio su cui il ricorrente vanta diritti, o col proprio nome e cognome;

b) il resistente non ha alcun diritto o titolo in relazione al nome a dominio contestato;

c) il dominio è stato registrato e viene usato in mala fede.

Se il ricorrente prova che sussistono assieme le condizioni a) e c) di cui sopra ed il resistente non prova a sua volta di avere diritto o titolo in relazione al nome a dominio contestato, quest’ultimo viene trasferito al ricorrente.

Ciò posto, andiamo a vedere come si faccia in concreto a dar impulso alla presente procedura, avvertendo fin da subito che le modalità operative sono descritte – oltre che nelle Regole di Naming e nei Regolamenti interni predisposti da ciascun Ente Conduttore – anche da un corpo normativo denominato “Procedura di Riassegnazione”, al quale si farà spesso riferimento e che si trova liberamente consultabile in Rete al seguente indirizzo:

https://www.nic.it/NA/riassegnazione-curr.txt

Particolarmente importante l’art. 3 P.d.R, che individua il contenuto del reclamo, che dev’essere inviato dal ricorrente all’Ente prescelto sia in forma cartacea (in duplice copia) sia in formato elettronico. Viene precisato, al 2°comma, che esso può avere ad oggetto anche più nomi a dominio, purchè appartenenti al medesimo titolare.

La 1°parte del reclamo contiene “i dati essenziali” della procedura: si trovano, infatti, le generalità ed i recapiti delle parti.

Nella parte narrativa del reclamo devono invece essere indicati e provati i presupposti sostanziali della procedura la cui prova incombe al ricorrente (e cioè si tratta delle condizioni sub a) e c)). Vanno pertanto indicati i motivi per i quali il nome a dominio risulterebbe identico o confondibile col marchio o col nome e cognome del ricorrente ed i motivi per i quali il resistente avrebbe registrato ed userebbe il dominio in malafede.

In allegato al reclamo devono essere presentati i documenti che lo supportano ed in particolare deve essere fornita la prova della registrazione del segno distintivo o del marchio cui il reclamo si riferisce.

Unitamente al reclamo il ricorrente deve versare il corrispettivo stabilito (il quale varia per ogni Ente Conduttore, che ha facoltà di decidere il prezzo della procedura, col solo limite di non applicare tariffe inferiori a 400 euro). Le spese – è opportuno sottolinearlo – sono ad esclusivo carico del ricorrente, dato che in questa procedura esse non seguono la regola della soccombenza: il resistente, pertanto, non dovrà mai sopportare alcun costo.

Una volta che il reclamo è pervenuto all’Ente Conduttore, questo ne verifica la regolarità formale e, se l’operazione si conclude con esito positivo, procede all’invio del reclamo al resistente.

Il resistente ha così conoscenza del reclamo ed ha da tale momento 25 giorni di tempo per inviare all’Ente Conduttore un proprio scritto difensivo.

Nella replica (che, quanto alle “modalità di trasmissione”, soggiace ai medesimi obblighi già visti per l’invio del reclamo) il resistente deve confutare le affermazioni del ricorrente, evidenziando – in particolare – i motivi per i quali ritenga di avere titolo al mantenimento del dominio già assegnatogli.

Giova ricordare che il resistente non è tenuto ad inviare detta replica, in quanto ha una mera facoltà e non un obbligo di presentare una memoria a sostegno delle proprie ragioni.

“Se il resistente non invia alcuna replica – precisa, infatti, l’ultimo comma dell’art. 5 P.d.R. – il Collegio decide la controversia sulla base del solo reclamo”.

E molto spesso il resistente non presenta alcunché. Trovo, comunque, che sia sempre preferibile far pervenire uno scritto, per mettere il Saggio in condizione di decidere più serenamente. Ovviamente “est modus in rebus”, perché – all’opposto – ci sono irriducibili personaggi che fanno arrivare note difensive davvero bizzarre (giorgio-armani.com: il resistente, giapponese, sosteneva di aver diritto al nome a dominio, perché “giorgio-armani” era il nome… del suo cane!!).

Il Collegio viene formato dall’Ente Conduttore, in forma monocratica o collegiale a seconda della scelta effettuata dal ricorrente che dovrà limitarsi ad indicare il tipo del collegio decidente, senza poter nominare direttamente il Saggio (ciò è peraltro evidente: in caso contrario la parte che promuove la procedura potrebbe praticamente “scegliersi il giudice”. Ed infatti dato che l’elenco dei saggi è pubblico, come pubbliche sono anche le decisioni da costoro rese, sarebbe facile in linea teorica capire quale possa essere l’orientamento più favorevole ad uno specifico caso).

Il Collegio si ritiene costituito con l’accettazione dell’incarico, ricevuta dall’unico Saggio o dal terzo dei tre.

Le modalità di svolgimento della procedura sono stabilite liberamente dal Collegio, il quale deve tuttavia assicurare un trattamento imparziale alle parti, concedendo ad ognuna di esse un uguale diritto di difesa.

Un punto centrale – e che tuttavia non è stato preso in considerazione da parte della dottrina con l’attenzione che invece avrebbe meritato – riguarda l’ampiezza (ed i limiti) dei poteri istruttori del Saggio.

Ci si chiede, in altre parole, se il Saggio, nel decidere la lite, sia vincolato alle allegazioni della parti o possa invece formare il suo convincimento aliunde. La questione, all’evidenza, non è mera disputa accademica, ma problema concreto, pratico. Peraltro molto frequente, perché la parte (che non è tenuta ad avvalersi dell’assistenza di un professionista nella redazione del reclamo o della replica) spesso sorvola su aspetti che avrebbe invece dovuto illustrare compiutamente (per tutti: le ipotesi di malafede). Le regole che disciplinano la procedura sul punto tacciono. Va detto che certa dottrina riconosce al Collegio la possibilità di effettuare d’ufficio le indagini che quest’ultimo ritiene indispensabili per pervenire ad una corretta decisione. Sembra però preferibile – anche per non forzare la lettera delle regole – accogliere l’opposto orientamento e dunque ritenere che il Collegio debba assumere la propria decisione unicamente sulla base delle affermazioni rese dalle parti e dei documenti prodotti (cfr. art. 15 P.d.R).

Potrà il Saggio, eventualmente, richiedere a ciascuna delle parti ulteriori precisazioni e documenti (come previsto ex art. 12 P.d.R.). Anche in questo caso, tuttavia, la laconicità del disposto testè citato non chiarisce se il collegio debba limitarsi a prospettare genericamente ai soggetti in lite di argomentare più diffusamente le rispettive posizioni ovvero se abbia la possibilità di formulare specifici quesiti alle parti (es: se il resistente abbia “fatto incetta” di domini corrispondenti a marchi celebri). Per restare all’esempio fatto, è evidente che, così facendo, il Saggio ricaverebbe preziose informazioni in ordine alla malafede del resistente; e tuttavia non sembra possibile che il Collegio possa arrogarsi tali poteri.

Una caratteristica del procedimento collegiale è la sua celerità, per cui tutti i termini, salvo eccezioni, sono perentori e comportano per chi non li rispetta la decadenza dal potere di compiere quel determinato atto.

Entro 15 giorni dalla sua formazione (30 nel caso in cui siano stati chiesti alle parti chiarimenti) il Collegio rende nota la propria decisione all’Ente Conduttore, che a sua volta provvede, nei 4 giorni successivi, a comunicarla alle parti, alla RA ed al presidente della NA.

E’importante sottolineare che il Collegio può accogliere il ricorso solo nel senso di disporre il trasferimento del DN, mentre null’altro può essere disposto in positivo. Ed infatti nella PDR il ricorrente può solo chiedere il trasferimento del nome a dominio, non anche la cancellazione dello stesso. E’, a mio avviso, un limite della procedura in esame. Sul punto mi limito ad osservare che le “analoghe” procedure amministrative adottate dall’ICANN (le c.d. MAP, che hanno “ispirato” la nostra PDR) prevedono per il ricorrente la sopra evidenziata doppia possibilità (si parla, espressamente, di “transfer” come alternativa alla “cancellation”). E, a quanto mi risulta, in più occasioni il ricorrente opta proprio per la cancellazione (come avvenuto nel caso nokiagirls.com, dominio dal nome equivoco che la Nokia desiderava unicamente venisse “tolto dalla scena”, non essendo evidentemente interessata all’assegnazione dello stesso a proprio nome).

Da noi, come detto, non c’è sulla carta la possibilità della cancellazione del DN, ma un “escamotage” può permettere al ricorrente di ottenere al lato pratico lo stesso risultato. Mi spiego. E’noto infatti che la pronuncia che dispone la riassegnazione non effettua un vero e proprio trasferimento del nome a dominio (cfr. art. 14 Regole di Naming); la RA, ricevuta la decisione, revoca il DN ed invita il ricorrente ad inviare la LAR, per dare così inizio alla richiesta del dominio oggetto di decisione. In particolare, se la procedura per l’assegnazione non viene intrapresa entro 30 giorni il DN può essere nuovamente e liberamente assegnato a chiunque ne faccia richiesta.

Come si vede, se il ricorrente lo desidera può non dar seguito al trasferimento del nome a dominio, lasciando decorrere il periodo di 30 giorni senza attivarsi. Di fatto il dominio è stato cancellato.

Un’altra particolarità della decisione. Se il Saggio ritiene che il reclamo sia stato promosso in malafede (magari per screditare l’assegnatario del DN) nella decisione si fa menzione di tale fatto e questa parte della decisione viene sempre pubblicata, anche qualora la pronuncia non venga resa integralmente disponibile on line.

La ratio di questa previsione è, all’evidenza, quella di disincentivare il c.d. “riverse domain name hijacking”: fenomeno piuttosto diffuso per il quale i titolari di un marchio registrato – il più delle volte “celebre” – hanno tentato di approfittare della loro posizione privilegiata cercando di farsi assegnare un dominio già legittimamente registrato da un terzo, titolare, a sua volta, di un concorrente diritto sul dominio stesso (es.: se Giorgio Armani promuovesse una PDR per armani.it, registrato dall’omonimo timbrificio di Treviglio (BG)). (vedasi, per riferimenti concreti, le decisioni cimone.it, dvditalia.it).

Ricostruito così, nei suoi momenti essenziali, l’iter della presente procedura, andiamo ora ad esaminare più da vicino l’art. 16.6 Reg. Naming, norma davvero centrale per la corretta comprensione della PDR. E’la norma fondamentale, la trave portante dell’impalcatura della PDR, la disposizione che deve avere sempre “sotto gli occhi” il saggio che va a decidere la lite.

Perché, come abbiamo visto, 3 sono i presupposti che sorreggono – da un punto di vista giuridico – il trasferimento del nome a dominio contestato a favore del ricorrente e tutti e 3 tali presupposti sono disciplinati dalla norma poc’anzi citata.

Andiamo, perciò, ad analizzare l’art. 16.6, che individua subito – alla lettera a) – la prima condizione che dev’essere soddisfatta.

a) il nome a dominio contestato dev’essere identico o tale da indurre confusione rispetto ad un marchio su cui il ricorrente vanta diritti, o al proprio nome e cognome.

Il punto a) deve esere dimostrato dal ricorrente nei modi consueti, fornendo prova dell’esistenza di un proprio marchio o del proprio nome e cognome.

Nel silenzio della norma, occorrerà stabilire in concreto se la PDR potrà venire utilizzata, oltre che per tutelare marchi registrati, anche per tutelare marchi di fatto, ragioni sociali o altri segni distintivi (quali il titolo di una testata giornalistica, o uno slogan).

Il fatto che l’art. 16.6 faccia riferimento solo ad un marchio sembrerebbe escludere la possibilità di avvalersi della procedura per difendere ogni tipo di segno distintivo, ma ogni timore viene risolto dalla lettura contestuale dell’art. 3 Proc. Riass., che – nello stabilire il contenuto del reclamo – fa espresso riferimento ai segni distintivi, oltre che ai marchi.

Sempre con riferimento al punto a) devo evidenziare che – a mio parere – a nulla rileva che il marchio sia stato registrato in Italia o altrove, dato che le vigenti regole di Naming richiedono genericamente che il ricorrente vanti diritti su un marchio, indipendentemente dalla Nazione in cui questo è stato registrato.

D’altronde osservo che numerose decisioni relative a TLD “geografici” (e “geografico” è anche il “.it”) hanno disposto il trasferimento di domini in favore di soggetti che avevano dato prova di essere titolari di marchi registrati in Paesi diversi rispetto allo Stato di registrazione del dominio contestato (vedasi – a titolo meramente esemplificativo – le seguenti pronunce, relative al ccTLD “.tv” – Isole Tuvalu, Oceania – nonché al ccTLD “.ws” – Western Samoa, Oceania – : “gomaespuma.tv”, “Halifax.tv”, “nasdaq.tv”, “nokia.ws”, “zippo.ws”). Tutte queste considerazioni sono state esplicitate nella decisione che chi scrive ha reso relativa al dominio “antago.it”, ad oggi l’unica pronuncia italiana che ha dovuto affrontare questo problema.

Passiamo ora all’esame del 2° presupposto richiesto per la riassegnazione del dominio.

La lettera b) testualmente recita: “il resistente non ha alcun diritto o titolo in relazione al dominio contestato”. Sarà, pertanto, onere del resistente dare prova di un proprio concorrente diritto o titolo al nome a dominio, oppure dell’esistenza di una delle circostanze dalle quali l’art. 16.6 u.c. Reg. Naming deduce la presunzione di un legittimo uso del resistente al nome a dominio contestato (es.: egli è conosciuto col nome corrispondente al DN contestato, anche se non ha registrato il relativo marchio, oppure che del DN sta facendo un legittimo uso non commerciale, e così via…).

Come ben affermato dall’Avv.Ziccardi nella decisione “dinersclub.it/dinersclubitalia.it”, le prove previste dalla lett.b) “devono sempre essere tenute in grande considerazione, per evitare che le PDR vengano utilizzate unicamente per garantire al più forte economicamente, quasi d’ufficio, diritti su domini correlatati ai segni distintivi del ricorrente”.

Il 3° presupposto richiede che il DN sia stato registrato e venga usato in mala fede.

E’una condizione molto importante, un aspetto cruciale, e rivela che non ogni ipotesi di contraffazione del marchio sia ritenuta illecita ai fini della presente procedura. In altre parole, non si può colpire con lo strumento della PDR una contraffazione di marchio attuata in buona fede. Si potrà, volendo, adire l’Autorità Giudiziaria ordinaria per vedere applicata la legge marchi, che reprime fenomeni di contraffazione più ampi, perché non dà rilevanza all’elemento soggettivo. Ma questo è un altro discorso, che esula dalla tematica di cui ci stiamo occupando.

Ciò posto, va detto che l’art. 16.7 Reg. Nam. elenca una serie di circostanze che, se dimostrate dal ricorrente, saranno ritenute prova della registrazione e dell’uso del dominio in malafede da parte del resistente (es.:il dominio è stato registrato per essere trasferito a caro prezzo al ricorrente, oppure per impedire al titolare di identico marchio di registrare in proprio tale nome a dominio, ecc.).

La disposizione poc’anzi citata, all’ultimo comma, si affretta però a precisare che l’elencazione delle “presunzioni di malafede” è meramente esemplificativa. Il Collegio potrà, pertanto, rilevare anche da altre circostanze elementi di malafede. Mi sembra corretto. Anzi, personalmente ritengo che, ai fini della procedura in esame, il termine “malafede” vada inteso nella sua accezione più ampia. Il che, per così dire, impone un’indagine “a 360° gradi” sul comportamento del titolare del dominio, al fine di indagare se emerga un “agire scorretto” di quest’ultimo, indice della sua consapevolezza di ledere diritti di terzi.

Così, passando in rassegna la giurisprudenza sul tema, annoto che è stato ritenuto essere in malafede chi registra un DN al solo scopo di impedire al ricorrente di portare sul web il proprio segno distintivo (cioè, come si legge di frequente, di impedire al ricorrente di riflettere sul DN il proprio nome o il proprio segno distintivo legittimamente registrato). (cfr. decisione aol.it)

Altre volte viene vista come indice di malafede – unita ad altre risultanze – la circostanza che il resistente abbia registrato altri domini in nessun modo riferibili alla sua attività, ma relativi a marchi e denominazioni di imprese famose. (barbie.it, pursennid.it, antago.it, ecomusei.it)

In certi casi, è stato considerato sintomo di malafede la detenzione passiva di un nome a dominio (c.d. “passive holding”, termine tecnico utilizzato anche da noi in Italia per definire correttamente tale fattispecie ): la detenzione, cioè, di un dominio cui non sono collegati contenuti raggiungibili tramite il protocollo http. Detto altrimenti – ed in termini più semplici –si tratta della mancata attivazione del sito (classica ipotesi, certamente nota a tutti, è la “pagina bianca” in cui campeggia la scritta “sito in costruzione”). (aol.it, guidasposi.it)

O ancora, per restare in tema, l’attivazione del sito solo in un momento successivo alla comunicazione del reclamo. E’un caso realmente accaduto, e ci si riferisce al dominio avid.it, nel quale – a seguito del reclamo del ricorrente (AVID, multinazionale leader nel settore della fornitura di strumenti audio e video digitali) – il resistente ha attivato un’improbabile pagina web che faceva riferimento ad un ipotetico “Avid – antiarrhytmics versus implantable defribrillators”, a dire del resistente il titolo di un articolo medico pubblicato sul New England Journal of Medicine. Ma anche questo, all’evidenza, si è rivelato uno “stratagemma” davvero poco astuto, ritenuto, invece, elemento di malafede.

Talora, poi, sono le pagine stesse del sito a provare – ictu oculi – la malafede del resistente (spesso, infatti, il sito è stato predisposto con il preciso intento di far credere all’ignaro visitatore di essere entrato nel sito ufficiale del ricorrente). (antago.it)

Tirando ora le fila di quanto fin qui detto sulla procedura di riassegnazione – ed avviandoci a concludere – va osservato che l’ambito della cognizione attribuita al Collegio è limitata all’accertamento della sussistenza dei presupposti richiesti dall’art. 16.6 Reg. Naming per il trasferimento del nome a dominio contestato. Deve essere chiaro, in altre parole, che la PDR è un’alternativa differente, in tutto e per tutto, rispetto alla composizione giudiziale delle liti.

Presentata così, la PDR sembra essere la “panacea” di tutti i mali che attualmente affliggono i domain names, in relazione al domain grabbing.

Indubbiamente, che sia uno strumento efficace è ormai assodato e ciò è testimoniato anche dal crescente successo che la procedura sta incontrando presso il pubblico (ad oggi si contano circa 100 decisioni).

Ovviamente presenta lati negativi (tra cui la possibilità che l’attuazione della decisione sia vanificata dall’instaurazione – entro 15 giorni dalla pronuncia del saggio – di una causa ordinaria dinanzi all’Autorità Giudiziaria), ma senz’altro superiori sono i “punti di forza”: la competenza del saggio, i costi contenuti e la celerità della procedura, abissale se paragonata ai tempi della giustizia ordinaria.

Quindi – e per concludere – invito a considerare che, nell’ambito di una contesa su un dominio, oltre alla composizione giudiziale delle liti, ci sono strumenti di risoluzione alternativi: il giudizio arbitrale e la procedura di riassegnazione, che presenta senza dubbio profili di assoluto interesse.

Qlocker, dati criptati da ransomware con riscatto in Bitcoin


Qlocker, è il nome del ramsonware che attualmente sta effettuando un’enorme campagna di contagi, che ha come obiettivo quello di crittografare i dati degli utenti che utilizzano dispositivi di archiviazione di tipo NAS, in particolare a marchio QNAP.

Gli aggressori utilizzerebbero 7-zip per la compressione dei dati in archivi protetti da password e chiederebbero il pagamento di un riscatto in Bitcoin.

Il ransomware che sta terrorizzando gli utenti QNAP sin dal 19 aprile scorso (2021) viene identificato con il nome di Qlocker. Secondo quanto spiegato dai colleghi di BleepingComputer, il ransomware sarebbe in grado di utilizzare 7-zip per spostare tutti i dati degli utenti all’interno di archivi compressi e protetti da password.

Mentre l’attacco da Qlocker è in corso, il gestore delle risorse dei NAS QNAP mostra numerose istanze di 7-zip (7z) in esecuzione da riga di comando.

 

Quando il ransomware Qlocker termina la propria procedura, i file del dispositivo QNAP sono memorizzati in archivi 7-zip protetti da password dall’estensione .7z. Per estrarre questi archivi, le vittime devono inserire una password conosciuta solo dall’attaccante.

Dopo che i dispositivi QNAP sono criptati, gli utenti vengono lasciati con una nota di riscatto chiamata “!!!READ_ME.txt” che include una chiave client unica che le vittime devono inserire per accedere al sito di pagamento Tor del ransomware. A tutte le vittime viene detto di pagare 0,01 Bitcoin, l’equivalente di circa 450 euro al momento della scrittura di questo articolo, per ottenere la password necessaria a liberare i propri dati.

 

Recentemente QNAP ha risolto alcune vulnerabilità critiche che potrebbero consentire agli aggressori di ottenere l’accesso completo a un dispositivo ed eseguire un ransomware. QNAP ha risolto queste due vulnerabilità chiamate CVE-2020-2509CVE-2020-36195 il 16 aprile.

QNAP ha risposto alle domande di BleepingComputer affermando che è possibile che Qlocker sfrutti la vulnerabilità CVE-2020-36195 per eseguire il ransomware sui dispositivi vulnerabili. È dunque fortemente raccomandato l’aggiornamento di QTS, Multimedia Console e Media Streaming Add-on alle ultime versioni.

Questo ovviamente non riporterà indietro i vostri file ma vi proteggerà con molta probabilità da futuri attacchi che utilizzano tale vulnerabilità.

VPN, cos’è e come funziona

Le Virtual Private Network (VPN) rappresentano un modo per estendere l’accessibilità delle reti aziendali anche a utenti remoti e altri siti dell’impresa in modo il più possibile sicuro, flessibile ed economico. Possono essere oggi implementate in diverse modalità per venire incontro alle specifiche esigenze degli utenti.

Quasi tutte le aziende che hanno una rete informatica interna, con computer, server e sistemi di archiviazione dei dati, hanno anche anche dipendenti o collaboratori che si trovano a lavorare (stabilmente o temporaneamente) in mobilità o da casa. Molte hanno anche sedi distaccate, più piccole di quella centrale, quali uffici periferici, punti vendita, magazzini o stabilimenti. Da anni esiste la tecnologia VPN (Virtual Private Network) per risolvere queste problematiche. Vediamo di cosa si tratta.

Cos’è una VPN e a cosa serve

Il significato di VPN è Virtual private network ed essa consente alle aziende di ampliare praticamente senza limiti geografici la propria rete privata centrale, creando una “rete virtuale privata”, che permette a utenti e siti periferici (branch) di connettersi al “major network” aziendale attraverso reti IP geografiche noleggiate da provider di telecomunicazioni, basate sul protocollo Mpls (Multiprotocol Label Swithcing), o reti pubbliche e condivise come Internet e le piattaforme cloud.

Grazie alle VPN Mpls o quelle over Internet, gli utenti remoti o i siti esterni di un’azienda possono collegarsi, da qualsiasi parte del mondo, in qualunque momento e con i dispositivi più disparati, alla LAN (Local area network) delle proprie sedi aziendale, in modo sicuro e il più possibile economico. Nell’ambito di queste connessioni, i client possono stabilire comunicazioni con un singolo computer o con tecnologie condivise con altri utenti quali un server applicativo, un database, un NAS (Network Attached Storage), stampanti e così via.

Cosa significa tunneling?

Alla base del funzionamento di una Virtual Private Network vi è la creazione di un tunnel (ovviamente virtuale) all’interno del quale due o più partecipanti a una sessione virtual private network possono scambiarsi dati al riparo da occhi indiscreti. Per la creazione di questo canale privato, pur utilizzando un’infrastruttura condivisa, è necessario un protocollo di tunneling. Di queste tecnologie oggi ne esistono di diverse, ma tutte hanno in comune alcuni aspetti.

Ecco come funziona una VPN

Innanzitutto nel data center dell’azienda, o nel suo private cloud (nel caso si abbia optato per questa soluzione) deve essere installato un server VPN, chiamato anche Virtual private network Hub o Central Hub, su cui sono gestiti tutti e tre i livelli del framework di sicurezza di una Virtual Private Network:

  • un sistema di autenticazione degli utenti,
  • un layer per la gestione dei metodi di cifratura dei dati scambiati fra i vari nodi della rete,
  • un firewall che controlla gli accessi alle diverse porte delle reti.

Il VPN Hub deve essere anche connesso a un router e a uno o più switch che permettono l’assegnazione di indirizzi IP pubblici (statici o dinamici) a tutti i partecipanti della VPN (dati che devono necessariamente essere presenti negli header dei pacchetti incapsulati nei tunnel).

Quindi, tutti i dispositivi che gli utenti intendono utilizzare devono essere dotati di un client VPN, che può anche essere:

  • un’applet nativa del sistema operativo del dispositivo;
  • un software o un estensione per il browser scaricabile dal sito del gestore di servizi VPN;
  • un agente software fornito insieme a un hardware che supporti la creazione di queste reti (router, firewall, NAS, etc);
  • un programma sviluppato da un vendor di sicurezza.

Tipi di VPN per topologia

Virtual Private Network è un modo di utilizzare le reti condivise e pubbliche globali per ampliare in modo controllato e protetto i confini di un major network aziendale privato, ma non significa un unico tipo di tecnologia e di implementazione.

Da un punto di vista delle topologie di VPN possiamo identificarne due tipi, spesso compresenti nella stessa azienda:

  • le VPN remote access, è la tipologia più semplice e comune e prevede esclusivamente la possibilità che alcuni utenti possano connettersi da remoto al major network dell’azienda.
  • le VPN site-to-site permettono di creare tunnel, attraverso reti pubbliche e condivise, fra siti aziendali diversi.

Questo tipo di VPN, dal punto di vista topologico, utilizza solitamente il modello hub-and-spokes. Il nome deriva dall’analogia con la ruota di una bicicletta. In questo caso l’hub (mozzo) è il major network aziendale, presso il quale si trova il server VPN. Gli spoke (raggi) sono le reti geografiche (MPLS o Internet) utilizzate per connettere al major network le sedi remote. Anche presso quest’ultime possono essere implementate soluzioni di Virtual Private Network che permettono l’accesso ai loro server da parte di utenti remoti o ulteriori branch che – a cascata – possono anche essere reinstradati verso il major network della sede centrale.

Tipologie di soluzioni per sicurezza, amministrazione e flessibilità

Oltre alle differenze topologie, esistono fra le Virtual Private Network anche diversità in funzione del livello di security e non solo. In particolare le VPN si suddividono in tre principali categorie: Trusted VPN, Secure VPN e Hybrid VPN.

Trusted VPN

Le Trusted VPN sono reti private virtuali in cui non è previsto un tunneling crittografato. Tradizionalmente appartengono a questa categoria le Virtual Private LAN create all’interno di un’azienda. I Virtual Private LAN Services si basano sul sul livello 2 (data link) del modello OSI e permettono di creare reti virtuali che condividono lo stesso network fisico ma i cui rispettivi host non possono sconfinare da una rete all’altra.

Come abbiamo già segnalato, le VPN non necessariamente utilizzano Internet come rete geografica: possono utilizzare anche le WAN MPLS. Questi fornitori sono in grado di offrire percorsi alle reti virtuali predefiniti, controllati, protetti e con una qualità del servizio (quality of service) garantite. Nel loro armamentario, quindi, ci sono le tecnologie utilizzate dal Trusted VPN.

Secure VPN

Il vantaggio principale delle Secure VPN è che i tunnel VPN sono creati utilizzando protocolli di cifratura e sicurezza quali IPsec, TSL/SSL, PPTP (Point to Point Tunneling Protocol) o SSH. Tali protocolli sono utilizzati da entrambi i nodi di una VPN. Di conseguenza, se un hacker riuscisse a intercettare i pacchetti di un traffico di rete, vi troverebbe dentro solo dati illeggibili. A differenza di una Trusted VPN, una Secure VPN consente di utilizzare Internet in modo estremamente flessibile: quello che conta è solo avere a disposizione delle connessioni, anche Wi-Fi pubbliche.

Hybrid VPN

Oggi sta emergendo il modello Hybrid VPN, che consente di coniugare i vantaggi delle Trusted VPN (come il controllo dei percorsi) e delle Secure VPN (la crittografia dei contenuti e dei tunnel). Molte Trusted VPN si stanno aggiornando con l’aggiunta di funzionalità Secure Virtual private network come security overlay sulle tecnologie già utilizzate.

VPN e sicurezza informatica

Sono molti i vantaggi delle VPN in termini di sicurezza. Innanzitutto, l’autenticazione degli utenti, che oggi può non avvenire solo con l’utilizzo di username e password, ma anche con smartcard, riconoscimento biometrico e altri metodi ancora.

Quindi la privacy dei dati. I principali protocolli utilizzati per creare VPN utilizzano algoritmi e protocolli crittografici molto robusti. E questo vale tanto per prodotti open source quali OpenVPN e SoftEther VPN, quanto per le tecnologie non a sorgente libero come SSTP, introdotto da Microsoft nel 2007, che sfrutta la tecnologia SSL 3.0, e IKEv2 , sviluppato da Microsoft e Cisco, che punta invece sulla tecnologia IPsec.

Dal punto di vista della sicurezza, va segnalato che il protocollo di tunneling MPPE è ormai da considerarsi obsoleto. Vi è poi il protocollo L2TP, che funziona a livello 2, non include un sistema di crittografia specifico, ma permette di creare tunnel che possono trasportare comunicazioni cifrate con diversi protocolli. Una sua evoluzione è L2TP/IPsec, in cui IPsec viene utilizzato per l’autenticazione. Un aspetto di security che va considerato, nel caso un’azienda optasse per servizi in cloud, è se il provider raccoglie o no informazioni sull’utilizzo dei servizi virtual private network, e che uso ne fa.

Come scegliere una Virtual Private Network

La scelta della soluzione giusta non può non richiedere un’attenta valutazione dei pro e dei contro dei diversi tipi di VPN, dei protocolli di sicurezza utilizzati e del fornitore della tecnologia o dei servizi gestiti.

Per creare Virtual private network con i metodi tradizionali, utilizzando i software più diffusi (e spesso nativi) e poco hardware, non si spende molto: l’importante è avere risorse competenti. Sul mercato ci sono anche ottimi fornitori di VPN as a service, utilizzati anche da molti utenti consumer, che offrono tariffe competitive che partono da pochi dollari al mese per utente, con molti gigabyte a disposizione e la possibilità di utilizzare più dispositivi contemporaneamente. Di certo salgono se si desidera implementare, on-premises o in cloud, soluzioni scalabili, affidabili, con funzionalità di amministrazione e sicurezza avanzate come la central client administration e il security policy enforcement.

Inoltre, va tenuto presente l’emergere delle VPN layer 3. Sempre più aziende desiderano connettere un numero crescente di siti e di relative LAN, al major network e fra di loro, in modalità virtual private network. Questo comporta un esplosione di indirizzi IP da gestire, moltissimi dei quali inevitabilmente identici. Diventa necessario quindi affrontare la situazione a livello di internetworiking, e quindi di livello 3 del modello OSI (network). I provider di servizi MPLS, grazie all’esperienza nella connettività site-to-site, sono avvantaggiati nel fornire soluzioni layer 3, che se sfruttano le proprie infrastrutture, sono chiamate MPLS Layer 3 VPN. Ma in molti casi anche le L2 sono e resteranno sufficienti.

Alcuni criteri per scegliere le VPN migliori

Per scegliere le VPN migliori è necessario basarsi sulle proprie reali esigenze, valutare le funzioni opzionali disponibili, tenendo presente che una buona opzione deve essere caratterizzata da riservatezza, sicurezza e dalla capacità di proteggere le informazioni. Può essere necessario rivolgersi a soluzioni premium.

Tra le funzioni da valutare la possibilità di fruire del servizio di split tunneling per accedere in modo trasparente a più domini di sicurezza; la garanzia che eventuali errori DNS siano risolti; la disponibilità del servizio kill switch che permette di mantenere sempre aperta la connessione virtual private network anche nel caso di interruzione di Internet.

Breve riepilogo dei protocolli utilizzati da virtual private network sicure

Ecco qui di seguito i protocolli più conosciuti che implementano una virtual private network sicura, esse solitamente utilizzano protocolli crittografici, anche se non sempre.

  • IPsec (IP security), comunemente usate su IPv4 (parte obbligatoria dell’IPv6);
  • PPTP (point-to-point tunneling protocol) di Microsoft;
  • SSL/TLS, utilizzate sia per il tunneling dell’intera rete sia per assicurarsi che sia essenzialmente un web proxy;
  • VPN Quarantine: la macchina del cliente terminale della VPN potrebbe essere una fonte di attacco, cosa che non dipende dal progetto della VPN;
  • MPVPN (Multi Path Virtual Private Network), è il trademark registrato da Ragula System Development Company.

Alcune reti VPN sicure non usano algoritmi di cifratura, in quanto partono dal presupposto che un singolo soggetto fidato possa gestire l’intera rete condivisa e che quindi l’impossibilità di accedere al traffico globale della rete renda i singoli canali sicuri, dato che il gestore della rete fornisce ad ogni soggetto solamente la sua VPN. I protocolli che si basano su questa filosofia sono per esempio:

  • L2F (layer 2 Forwarding), sviluppato da Cisco;
  • L2TP (Layer 2 Tunneling Protocol), sviluppato da Microsoft e Cisco;
  • L2TPv3 (layer 2 Tunneling Protocol version 3);
  • Multi Protocol Label Switching (MPLS), spesso usato per costruire una Trusted VPN.

VPN e il Fritz 7590

In Rete siamo costantemente bombardati da offerte di VPN, ovvero Virtual private network. Spiegato semplicemente si tratta di collegare il vostro dispositivo, che sia uno smartphone ovvero un computer o altro dispositivo che supporti questa possibilità, ad un server che gestirà tutte le vostre richieste di rete, sia in entrata che in uscita. Ad esempio se il vostro fornitore VPN si trova in Australia, se provate a collegarvi ad un sito, risulterà che vi state collegando dall’Australia. Questo ha indubbi vantaggi anche per servizi che hanno restrizioni geografiche sui loro servizi, provate a collegarvi al sito della RAI dall’estero, oppure Netflix, vedrete che i contenuti saranno differenti!. Le Virtual Private Networ tecnicamente dovrebbero fornirvi anche il massimo della sicurezza e della privacy, soprattutto se vi collegate ad un wifi pubblico. Eventuali malintenzionati non possono intercettare il vostro traffico. Per quanto riguarda la privacy, ci sono delle ombre, nessuno vi assicura che il provider della VPN non controlli il vostro traffico. La soluzione migliore sarebbe utilizzare una Virtual Private Network creata sul vostro router. Il Fritz!Box 7590 vi offre questa possibilità.

VPN con MyFRITZ!App

Con MyFRITZ!App è possibile stabilire connessioni VPN in Android in modo particolarmente semplice. Installare la MyFRITZ!App sul proprio smartphone o tablet, registrarsi sul proprio FRITZ!Box e configurare con un solo clic la connessione VPN nel menu “Rete locale” oppure “Rete domestica” della App.

E’ possibile stabilire in qualsiasi momento da fuori una connessione VPN con il proprio FRITZ!Box dal menu “Rete locale” oppure “Rete domestica” nella MyFRITZ!App. Non appena viene stabilita la connessione, è possibile accedere tramite link diretto nella MyFRITZ!App al proprio FRITZ!Box e ad altri dispositivi dotati di una propria interfaccia web, ad esempio un sistema NAS.

Configurare VPN su fritz!Box

Sul Fritz!Box la prima cosa da fare è creare l’Account MyFritz!. Dall’interfaccia del dispositivo selezionare “Account MyFritz!” e seguire la procedura guidata.

vpn

Dopo la creazione dell’account MyFritz, bisogna creare un utente abilitato all’accesso VPN. Per fare ciò, nell’interfaccia del modem sotto la voce “Sistema”, c’è Utenti Fritz!Box, selezionatelo e create l’utente assicurandovi di spuntare l’accesso da remoto e l’abilitazione alla Virtual Private Networ. Alla fine della procedura apparirà una finestra con le istruzioni per configurare uno smartphone Android o iOS per l’accesso alla vostra Virtual Private Network. Le istruzioni sono molto semplici e potete anche stamparle. Potete recuperarle anche in Internet -> Abilitazioni, sempre all’interno dell’interfaccia del Fritz.

utenti

Assistenza Wizard VPN

FRITZBox 7530

L’introduzione ideale al profilo 35b

Con il FRITZBox 7530 disponi di primo accesso ideale alla rete domestica veloce con il profilo 35b. Oltre al modem ADSL/VDSL e a un router wireless riuniti in un solo dispositivo, il FRITZ!Box 7530 dispone anche di un centralino telefonico DECT integrato, di Ethernet a Gigabit, di una porta USB e del media server.

WiFi Mesh con FRITZ!

Per consentire l’accesso continuo a video, musica e foto nella rete domestica, fino all’angolino più remoto di ogni stanza, il FRITZ!Box 7530 si affida alla WiFi Mesh. I dispositivi FRITZ! distribuiti nella casa sono operativi in un’unica rete, si scambiano i dati tra loro e ottimizzano le prestazioni di tutti i dispositivi nella rete wireless. 

Con la rete mesh si può godere molto semplicemente della massima velocità nella navigazione, nella visualizzazione di video o nel gaming. Adesso, sono i programmi mozzafiato in HD e la tua musica favorita ad aspettare te, e non al contrario!

Scoprite di più sulla WiFi Mesh

Massima sicurezza con il FRITZ!Box

Con il FRITZ!Box di AVM, vai sul sicuro! Le sue caratteristiche di sicurezza proteggono la tua comunicazione. Viene testato e migliorato continuamente. Grazie agli aggiornamenti gratuiti sei sempre al sicuro.

Centralino per connessioni basate su IP

Il FRITZBox 7530 contiene un centralino per le moderne connessioni basate su IP. Puoi collegare via DECT fino a sei telefoni cordless. C’è posto anche per il telefono analogico o il fax. Sono inoltre disponibili diverse segreterie telefoniche, rubriche online e numerose funzioni comfort.

FRITZ!OS

Svariate possibilità di connessione

Il FRITZBox 7530 è disponibile direttamente per la connessione al profilo 35b. Offre inoltre wireless AC veloce e wireless N in modalità duale. Sul router stesso si trovano inoltre quattro porte LAN Gigabit e una porta USB. Tramite queste porte puoi non solo integrare tutti i tuoi terminali nella rete senza fatica, ma anche integrare la tua stampante e predisporre una memoria USB. Potrai così vedere film, immagini e ascoltare musica quando e dove desideri.

FRITZ!OS: un concentrato di funzione

FRITZ!OS, il sistema operativo del FRITZ!Box, mette regolarmente a tua disposizione nuove funzioni. Grazie alle FRITZ!App puoi accedere ai tuoi dati con lo smartphone anche quando sei fuori casa, telefonare nella rete domestica o controllare la tua smart home. Oltre ai dispositivi Smart Home FRITZ!, il FRITZBox 7530 supporta anche dispositivi di terzi con la tecnologia DECT-ULE/HAN-FUN. E ricorda: tutti gli aggiornamenti e tutte le app per i prodotti FRITZ! sono gratuiti.

https, chrome chiede i siti sicuri

HTTPS entro 22 luglio 2018?, perché passare?

protocollo https

3CX il centralino Cloud

 
Centralino telefonico IP - 3CX Management Console3CX è una suite completa di funzionalità di telecomunicazioni unificiata (Unified Communication) che non necessità di downloads addizionali o acquisto di moduli aggiuntivi.
 
La videoconferenza WebRTC integrata su browser open-standard o via app per iOS/Android consente di incontrarsi ovunque vi troviate. L’impulso alla produttività garantito da funzionalità come la Presence, la chat aziendale, la lavagna condivisa, screensharing ed altro ancora, consentono al personale di collaborare meglio e lavorare con più efficienza.
 
3CX trasforma la gestione del centralino in una passeggiata. La gestione ordinaria è ridotta praticamente a zero, grazie all’automazione dei compiti quotidiani e la possibilità di controllare gli eventi critici da un unico pannello di controllo. Gli aggiornamenti del centralino e gli ultimi firmware supportati sono scaricati automaticamente e attivabili in pochi click del mouse. La configurazione Plug&Play del telefoni IP e dei SIP
Trunk garantisce una semplice attivazione e scalabilità. L’eliminazione di noiosi compiti gestionali fa risparmiare tempo all’Amministratore di sistema e la sua nuova console, moderna intuitiva e user-friendly, rende la configurazione facile e indolore.
 
Sicuro, semplice, direttoAbbiamo integrato i protocolli di sicurezza più avanzati, proteggendo le vostre telecomunicazioni contro ogni tipo di attacco. Il centralino offre funzionalità di sicurezza facili da attivare e da gestire, come il blacklisting di indirizzi IP, la crittazione SRTP, il rilevamento automatico di attacchi SIP, l’approvvigionamento dei telefoni via HTTPS, connettività SSL ed un rating A+ da SSL Labs.
Tutto questo in combinazione con un webservera prova di bomba per consentirvi di dormire sonni tranquilli.
 
I softphones per Windows e Mac e le app per iOS e Android lavorano in abbinamento al Web Client per garantirvi una imbattibile connettività e mobilità. Gli utenti possono fare e ricevere chiamate, vedere lo stato di Presence dei colleghi, programmare videoconferenze, partecipare a web meetings, trasferire chiamate e molto altro dal palmo della loro mano. L’integrazione della tecnologia PUSH significa la garanzia di non perdere più nessuna chiamata e di risparmiare batteria.
 
L’integrazione con le altre piattaforme aziendali è più facile che mai; connetti 3CX con i CRM più diffusi come Salesforce, Google Contacts, Office 365 e altri ancora. Il personale risparmierà tempo e aumenterà la produttività, grazie più semplice gestione e reportistica delle chiamate. Oltre a questo, l’extension per Chrome 3CX ClicktoCall consente agli utenti di digitare i numeri direttamente dalle pagine web o dal sistema CRM semplicemente cliccando sul numero evidenziato.
 
Chiedo oggi stesso di potere usufruire della Prova 3CX .
 
Taglia i costi, aumenta i profitti e abbatti le barriere della sede, inizia a pensare e lavorare in maniera globale, risparmia sulla bolletta ed elimina i costi sulle chiamate interne collegando le diverse sedi aziendali e consentendo ai collaboratori esterni di usare il proprio interno ovunque essi siano.
 
In aggiunta, essendo un software, 3CX consente di installare il centralino su un hardware già presente in azienda, senza l’obbligo di acquisto di costose appliance proprietarie. Infine, i costi di trasferta non sono più un problema: gli utenti potranno partecipare a videoconferenze con un click del mouse invece di doversi recare sul posto.

Connettività ADSL e WiMax

Link 10 Mega
Link 10 Mega

  • Tipologia Servizio: Fixed Wireless Access
  • Download 10 Mbps, Upload 1 Mbps
  • Traffico Internet illimitato incluso
  • Account Manager dedicato
  • Anche in zone non raggiunte da Adsl tradizionale
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Link 20 Mega
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  • Tipologia Servizio: Fixed Wireless Access
  • Download 20 Mbps, Upload 2 Mbps
  • Traffico Internet illimitato incluso
  • Account Manager dedicato
  • Anche in zone non raggiunte da Adsl tradizionale
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Link Fibra 30 Mega
Link Fibra 30 Mega

  • Tipologia Servizio: Wimax
  • Download 30 Mbps, Upload 3 Mbps
  • Traffico Internet illimitato incluso
  • Account Manager dedicato
  • Anche in zone non raggiunte da Adsl tradizionale
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Link 8 Mega Mensile
Link 8 Mega Mensile

  • Tipologia Servizio: Wimax
  • Download 8 Mbps, Upload 1 Mbps
  • Durata contrattuale: 1 Mese
  • Traffico Internet Incluso
  • Anche in zone non raggiunte da Adsl
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Link 8 Mega Trimestrale
Link 8 Mega Trimestrale

  • Tipologia Servizio: Wimax
  • Download 8 Mbps, Upload 1 Mbps
  • Durata contrattuale: 3 Mesi
  • Traffico Internet Incluso
  • Anche in zone non raggiunte da Adsl
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